Israele, lo scandalo degli ebrei 

Sul nostro sito si può trovare un articolo, risalente al tempo della prima guerra del golfo contro Saddam Hussein, che ha come titolo “Israele: lo scandalo dei gentili”. “Israele, lo scandalo degli ebrei” potrebbe essere invece il sottotitolo del libro di Giulio Meotti, “Ebrei contro Israele”, uscito pochi giorni fa. Per quanto possa sembrare strano alle orecchie dei gentili, si direbbe che le cose stiano proprio così. Non resta che verificare leggendo il libro. Con il consenso dell’editore, ne riportiamo la prefazione di Ugo Volli e un lungo estratto. 

PREFAZIONE 
di Ugo Volli

Perché vi sono degli ebrei che odiano Israele? Perché ebrei che odiano gli ebrei? Molti di quelli che odiano Israele dicono di non essere razzisti e quindi di non poter odiare gli ebrei, per ragioni di principio, anzi si offendono quando glielo dici. Ma di fatto Israele è lo Stato degli ebrei: rinasce sui luoghi storici dove per milletrecento anni si è sviluppata la civiltà ebraica, dove si è scritta la Bibbia, dove sono vissuti i Profeti e i Re di Israele; raggruppa ormai la metà della popolazione ebraica nel mondo e per gli altri rappresenta la sicurezza e il sogno di sempre. Difficile dunque odiare Israele senza coinvolgere gli ebrei che ne decidono democraticamente la politica e vi si identificano. Perché dunque quest’odio che da Israele si estende agli ebrei o, più probabilmente, dagli ebrei si focalizza su Israele? 
È ben vero che in Italia vi sono stati dei giornalisti che hanno scelto per la loro rubrica di opinioni il titolo L’Antitaliano (quel Giorgio Bocca che da giovane fu fra i due o trecento eletti del regime fascista a firmare il Manifesto della Razza) e che vi sono stati intellettuali americani sempre entusiasti di denunciare “l’imperialismo USA” (per esempio quei Chomsky e Falk che hanno un posto d’onore anche fra gli ebrei antisemiti analizzati in questo libro); e così anche per altri Paesi. Ma non si è trattato né per quantità né per qualità di fenomeni paragonabili all'”odio di sé” di intellettuali e giornalisti e di certi gruppi di politici e perfino di rabbini ebrei o al sistematico tentativo di danneggiare il proprio Paese che caratterizza l’azione di molte ONG israeliane e dei personaggi ebrei di quelli descritti da questo libro. 
La domanda è perché, qual è la ragione di questo triste privilegio. Il popolo ebraico è quello, fra coloro che sono sopravvissuti alla storia, che ha subito di gran lunga più persecuzioni. Israele è, fra gli Stati esistenti, uno di quelli la cui istituzione è stata più giustificata giuridicamente e che ha trattato meglio le proprie minoranze. Perché tanto odio non solo da fuori ma anche dal proprio interno? 
Gli interessati, che di solito negano di essere antisemiti affermando di essere solamente critici nei confronti di Israele, delle sue politiche e magari solo del suo governo (ma lo fanno con tutti i governi, si dice che l’ultimo governo appoggiato da Haaretz sia stato quello del Mandato britannico…), sostengono in genere di agire per giustizia o per fedeltà all’autentica tradizione ebraica. Israele sarebbe nato da un “peccato originale”: per i religiosi più estremi, la ribellione contro l’esilio inteso come punizione divina per i peccati del popolo ebraico; per i laici, la violenza inferta dalla “colonizzazione” ebraica in Palestina, in particolare la “pulizia etnica” che sarebbe stata fatta durante la guerra del 1948. L’argomento teologico è ininfluente qui e comunque è fortemente minoritario anche negli stessi ambienti religiosi: lo sostengono esplicitamente solo alcuni ultraestremisti come la setta dei Naturei Karta (quelli che girano con la kefià e la bandierina palestinese a mo’ di distintivo), mentre gli altri ultraortodossi sembrano protestare soprattutto contro la laicità dello Stato di Israele e cercare allo stesso tempo di strappare privilegi economici e normativi. 
La pretesa di condannare un “peccato originale” o successive “oppressioni coloniali” da parte degli antisionisti di sinistra sta ancor meno in piedi. Israele è nato in seguito a una doppia decisione internazionale (quella della Società delle Nazioni nel 1922 e quella dell’ONU nel 1947), cioè con una legittimazione che non ha avuto quasi nessun altro Stato del mondo. Ha stabilito i limiti della propria amministrazione sulle linee di armistizio determinate dalla sua vittoriosa autodifesa nelle guerre che gli Stati vicini gli hanno mosso e si è dimostrato disposto a negoziarli in cambio della pace ogni volta che è stato possibile. Non ha effettuato pulizie etniche, come si vede dal fatto che il 20% dei suoi cittadini sono arabi e un milione e mezzo di arabi vive nei territori sotto il suo controllo al di là della Linea Verde dell’armistizio del 1949, indisturbati se non si dedicano al terrorismo. Certo, vi sono state vittime civili e profughi, inevitabili in tutte le guerre, ma questi “danni collaterali” di conflitti sempre subiti e mai cercati da Israele sono inevitabili nel fuoco della guerra e infinitamente minori ai disastri nati dalle guerre mondiali in Europa o dalla separazione fra India e Pakistan, per non parlare della ex-Jugoslavia o del Ruanda. Anche se una propaganda infinitamente ripetuta, in parte gestita dai Paesi arabi e condivisa anche dagli ebrei antisemiti, ha convinto molti del contrario, la politica di autodifesa dello Stato di Israele sotto l’attacco di guerre e terrorismo può essere considerata un modello di gestione umanitaria del conflitto. 
Perché allora tanto odio? Non bisogna stancarsi di ripetere questa domanda. Una spiegazione è quella in termini di psicologia politica che tenta Kenneth Levin nel suo libro The Oslo Syndrome: fra i bambini maltrattati e fra le vittime di rapimenti spesso si nota una dipendenza psicologica dai propri torturatori, una dipendenza che a volte diventa adesione. È la “Sindrome di Stoccolma” (chiamata così da un episodio emblematico di questo tipo accaduto fra gli ostaggi di una rapina a una banca nella capitale svedese). Sottoposti alla pressione soverchiante del disprezzo antisemita da parte della società circostante da cui vorrebbero essere riconosciuti e accettati, vi sono ebrei che ne accettano, anzi ne esagerano, l’odio. È il caso esemplificato in maniera estrema dall’ebreo austriaco Otto Weininger, morto suicida a ventitré anni nel 1903 dopo aver pubblicato un libro molto influente, Geschlecht und Charakter (“Sesso e Carattere”), in cui la Cristianità è descritta come “la più alta espressione del più grande destino”, mentre l’Ebraismo “la più vile codardia”. 
Un’altra spiegazione, che in fondo completa la prima, è la metafora del coccodrillo: attaccato dal grande rettile un naufrago privo di scrupoli può illudersi di salvarsi saziando la sua fame coi propri compagni di sventura, indicandoglieli, spingendoli giù dalla fragile zattera dove convivono, alleandosi in sostanza con lui. È un’illusione: la fame dei coccodrilli, almeno di quelli antisemiti, non ha fondo. Ma la tentazione è forte. Come è forte l’altra tentazione e illusione connessa, quella di pensare di essere superiori e diversi dalle prime vittime dell’odio antisemita e quindi di avere ragione ad alimentare il mostro antisemita coi propri fratelli. La pensavano così cent’anni fa i tedeschi assimilati nei confronti degli immigrati dall’Europa Orientale, da dove peraltro erano venuti anche i loro nonni o bisnonni. La stessa reazione hanno oggi gli ebrei progressisti e internazionali di Tel Aviv nei confronti dei coloni, che devono fronteggiare l’ostilità araba esattamente come a suo tempo avevano fatto i nonni e i bisnonni dei virtuosi pacifisti; l’hanno quei compunti ebrei “democratici” americani o italiani di cui si parla in questo libro (per fortuna una minoranza) verso gli israeliani tutti, che non sono capaci secondo loro di fare la pace e di smettere così di metterli in imbarazzo nei loro salotti e nelle sezioni di partito. 
Lo schema che emerge nelle loro parole piene di spocchia è sempre quello di una parte giusta e civile che cerca di distinguersi da una parentela incivile e barbara e ingiusta; la prima peraltro è quella che sta al sicuro e per il momento non corre rischi e pertanto si unisce al coro di coloro che accusano l’altra parte, anzi punta ad esserne l’avanguardia, in modo che nessuno possa accusarli di esserne complici. Nel loro petto freme la saggezza, la virtù, l’idealismo; sono insieme ottimi ebrei che rispettano la tradizione (come la deformano loro) e cittadini esemplari dell’Europa o degli Stati Uniti o talvolta perfino di Israele. Vorrebbero tanto rieducare i reprobi, ma non ci riescono per l’ostinatezza e la cecità di costoro (vizi che l’antisemitismo ha sempre attribuito agli ebrei), dunque loro malgrado si trovano a richiedere per questi criminali una giusta punizione, a dover appoggiare i loro nemici, di cui solo la loro crudeltà (altro vizio ebraico) non vede le ragioni, ad approvare il boicottaggio, lo stesso che il Nazifascismo aveva imposto ai loro parenti. 
Tanto più il coccodrillo si agita e spalanca la bocca, quanto più gli ebrei antisemiti si danno da fare per distinguersi e condannare chi si trova sulla stessa zattera, cercando di spingerlo giù, dando ragione agli attacchi del rettile. Hanno torto, non sono migliori ma peggiori di quelli che condannano, assai più ciechi e ostinati degli altri, soprattutto molto più egoisti e meschini. Non saranno probabilmente mangiati loro dal coccodrillo, ma solo perché gli altri, i cattivi, hanno imparato a difendersi e senza volerlo si trovano a difendere anche loro. Ma vale la pena di farne il nome, di indicarli non al coccodrillo ma almeno all’opinione pubblica, perché essa sappia come si muovono e cosa dicono. Aprire anche in Italia questo discorso è il grande merito di questo libro. 

 

Estratto dal libro “Ebrei contro Israele”

      «Lo hanno chiamato J-Call (European Jewish Call for Reason) ma è la versione in salsa europea di J-Street, la lobby ebraica liberal e pacifista nata nel 2008 in risposta all’American Israel Public Affairs Committee e che si è opposta, per dirne una, alle sanzioni contro la Repubblica islamica dell’Iran. J-Call dice di essere un “appello alla ragionevolezza” per la pace tra Israele e i palestinesi. Ma la ragionevolezza è stata riassunta nella critica al governo del premier israeliano, Benjamin Netanyahu. Gli intellos ebrei firmatari impartiscono lezioni sul “futuro di Israele”, ma dimenticano il programma nucleare dell’Iran, i missili Scud consegnati a Hezbollah e i razzi che Hamas continua a lanciare da Gaza. Dicono “siamo al di sopra delle divisioni partigiane”, ma rivendicano di essere “la sinistra ebraica della Diaspora”, da non confondere con “la sinistra al governo in Israele”, come spiega il professore Ze’ev Sternhell, uno dei promotori. 

 

      L’appello di J-Call è un riassunto di vecchie posizioni ideologiche. Il pericolo per Israele è “l’occupazione e il proseguimento ininterrotto degli insediamenti in Cisgiordania e nei quartieri arabi di Gerusalemme Est, che sono un errore politico e una colpa morale”, recita il testo dell’appello sottoscritto da più di tremila persone. “La sopravvivenza di Israele in quanto Stato ebraico e democratico […] è condizionata alla creazione di uno Stato palestinese sovrano e indipendente”. “L’allineamento sistematico alla politica del governo israeliano è pericoloso perché va contro i veri interessi dello Stato ebraico”. 

 

      Nato in Francia, l’appello è stato condannato dal CRIF, l’istituzione che rappresenta le comunità ebraiche francesi. J-Call “sarà ampiamente usato da quelli che sono i veri nemici di Israele”, ha spiegato il presidente del CRIF Richard Prasquier. Emmanuel Navon, professore all’Università di Tel Aviv, ha risposto sul proprio blog su The Jerusalem Post: “Barnavi e i suoi amici stanno puntando il loro dito accusatore contro la persona sbagliata […]. Restando compulsivamente attaccati alla loro ideologia fallimentare, i firmatari di J-Call non sono meglio delle loro bestie nere politiche. Il messianismo politico, di destra o di sinistra, è sempre cattiva fede. J-Call è un appello alla cattiva fede”. O, come ha scritto Fiamma Nirenstein, una delle poche voci ragionevoli dell’Ebraismo italiano, “J-Call mette i nemici di Israele, e sono più di sempre e più agguerriti, nella condizione di delegittimare e attaccare lo Stato ebraico, dicendo: ‘Anche molti ebrei sono dalla nostra parte’. Se questo era lo scopo dei firmatari, lo hanno raggiunto”. 

 

      Durissimo anche il saggista e accademico Giorgio Israel: “Si ripete qualcosa di analogo al periodo fascista. Negli anni ’30 una parte dell’Ebraismo italiano prese le distanze dal Sionismo attaccando l’idea d’Israele, in parte in buona fede, in parte per ingraziarsi i torturatori”. L’appello è stato promosso in Italia prima dal gruppo Martin Buber-Ebrei per la Pace (di cui fanno parte Giorgio Gomel, l’architetto Luca Zevi, lo scrittore Victor Magiar e il saggista Stefano Levi Della Torre) poi dai torinesi di Ha-Keillà e da David Bidussa, storico e appartenente alla “famiglia” degli intellettuali di sinistra della comunità ebraica milanese. Gomel, in particolare, si è reso protagonista di un episodio incredibile di “odio di sé ebraico”. 

 

      Era il 2011 quando due palestinesi sterminano una famiglia ebraica nell’insediamento di Itamar, in Cisgiordania. Quella sera una ragazzina israeliana di dodici anni era fuori casa con degli amici fino a mezzanotte, in un villaggio vicino al proprio. Tornò a casa. Nessuno rispose. Entrò con un vicino e vide sua madre, il padre e tre fratelli (di undici e tre anni e l’ultimo di tre mesi) uccisi con la gola squarciata. I Fogel furono annientati quella notte. Pochi giorni più tardi la Comunità Ebraica di Roma aveva annunciato, dopo una prima visita ad Itamar, un secondo appuntamento con un evento chiamato 

Happening e barbecue con i nostri fratelli di Itamar

      . Gomel scrisse quindi una lettera pubblicata sul mensile 

Shalom

      : “Itamar non è un posto da barbecue e i suoi abitanti non sono sentimentalmente i ‘nostri fratelli'”. I Fogel, tutti, fino al neonato decapitato, erano esseri umani inferiori alle vittime arabe e per questo meno degni di indignazione da parte non solo dell’Occidente, ma anche dell’

intellighenzia

       ebraica di sinistra. 

 

      La firma più illustre di J-Call Italia è quella del giornalista Gad Lerner. Nel libro 

Scintille

      , dove si definisce “levantino d’Europa”, Lerner non rinnega l’Ebraismo, lo celebra piuttosto come qualcosa che ha a che fare esclusivamente con la tolleranza, con la mescolanza delle etnie e delle religioni (leggi: Islam), con l’ibridazione delle culture, con l’idea d’esilio, di Diaspora e di meticciato. Lerner offre la propria saga familiare come un’esortazione al cosmopolitismo, che pure è uno dei tratti che hanno reso grande la cultura ebraica del Novecento e nei secoli. Ma così facendo, condannando l’esito sionista dopo la 

Shoah

      , Lerner si pone sotto la costellazione di quella stessa catastrofe che ha sostituito al ghetto le camere a gas. Nulla dalle sue pagine lascia trapelare amore e orgoglio per come la costruzione esclusiva del monoteismo giudaico abbia partorito democrazia e diritti umani in Occidente. Non c’è alcun allarme sulla volontà iraniana di incenerire Israele né sull’odio nuovo e antichissimo che investe anche gli ebrei della Diaspora (leggi: la strage di Mumbai). Non c’è compiacenza per il grado di felice integrazione di etnie, lingue ed esperienze diverse in Israele, per la forza delle sue istituzioni e della cultura laica e religiosa. Non c’è traccia di generosità verso l’esperimento sionista, un paese che respira fra la vita e la morte da sessant’anni e che fin dai propri albori ha combattuto duramente restando una grandissima democrazia. 

 

      È in un esotico altrove che Lerner colloca la propria biografia umana e familiare. Il titolo del libro deriva da “

gilgul

      “, che secondo la 

Qabbalah

       ebraica è il frenetico movimento delle anime vagabonde. Con queste “scintille”, che ripercorrono la propria storia dalla Polonia al Libano, Lerner accusa Israele di “inadeguatezza” e compie una sottile inconfessata apostasia rispetto a questo Paese e al suo destino, secondo lui vittima della “nozione soffocante di nemico”. Nel libro Lerner se la prende anche con chi, come le famiglie israeliane vittime degli attentati, ha voluto mostrare le immagini di morte dopo che sono passati i 

kamikaze

      . “La morbosità con cui si celebra il dolore è insinuante fino a obnubilare i sensi”, scrive Lerner, che vorrebbe dissacrare la sofferenza delle migliaia di civili assassinati dai terroristi suicidi. “I servizi filmati trasmessi alla televisione dopo gli attentati indugiano sulle membra violate dei cadaveri, sulle pozze di sangue, sui feriti che urlano”. 

 

    L’avventura sionista, una benedizione per gli ebrei e l’Occidente, non ha registrato una vocazione unanime all’interno dell’Ebraismo. Ma i modelli che Lerner offre al lettore, per quanto tutti dignitosi, servono solo a esaltare “la crisi del Sionismo”. Come il marxista ebreo Ernst Bloch, che d’Israele diceva, forse allarmato dalla sua trasformazione in Stato-guarnigione: “Che senso ha rivoluzionare l’Ebraismo per partorire una Serbia o un Montenegro in più?”.»

(Notizie su Israele, 11 maggio 2014)