Analisi di Ugo Volli

L’attentato di Parigi merita un’attenzione più seria e prolungata della semplice indignazione “di pancia”, dell’orrore e dello sdegno che molti hanno espresso immediatamente. Molti, ma non tutti, dato che c’è una corrente significativa di opinione, dal presidente turco Erdogan al britannico “Financial Times” alla maggioranza della stampa dei paesi islamici, che non ha esitato ad attribuire ai giornalisti uccisi la responsabilità della strage che hanno subito. Anche per chi non ha il disprezzo della libertà di stampa che caratterizza il regime turco, non basta una rapida condanna esattamente per una ragione opposta al giudizio di chi giustifica la strage: perché non è un semplice benché efferato episodio di cronaca, ma di un “atto di guerra”, come ha detto Umberto Eco riecheggiando un giudizio di Papa Francesco che non è stato sufficientemente considerato: stiamo vivendo “una terza guerra mondiale combattuta ‘a pezzi’, con crimini, massacri, distruzioni”. Della guerra l’attentato di Parigi aveva la terribile efficacia militare, l’organizzazione rigorosa, la freddezza che si vede nel filmato largamente diffuso in rete. Ma è una guerra strana, che dopo aver colpito dei bambini (la scuola ebraica di Tolosa), un museo (quello ancora ebraico di Bruxelles, un attentato preparato in Francia) e vari altri obiettivi meno cruenti, sempre in Francia, ora stermina la redazione di un settimanale satirico. Una scuola, un museo, un giornale, diverse sinagoghe: che guerra è? E’ bene dirlo, è una guerra contro la cultura, contro la libertà, contro l’Occidente. Per capirne bene la ragione, bisogna considerare la storia di Charlie Hebdo. Fondato nel 1970, denominato dal titolo di un mensile simile al nostro Linus, compagno impertinente e sfottente del più antico Le Canard enchaîné , il settimanale che è stato attaccato l’altro ieri ha una storia di provocazioni, prese in giro, attacchi paradossali che sono figli della cultura del Sessantotto. Il suo primo numero, che metteva assieme la morte del Generale De Gaulle e il terribile incendio di una balera di provincia, titolava facendo il verso ai giornali di cronaca: «Bal tragique a Colombey (il paese di residenza di De Gaulle). Un mors» e naturalmente fu sequestrato. Charlie Hebdo non ha mai avuto paura di mettere i piedi nel piatto, parlando di cose che la buona educazione proibisce di chiamare in causa: la morte, il sesso, ma anche la religione, la politica, gli escrementi. Per questa ragione a partire dal 2006 Charlie ha sostenuto una lunga battaglia contro la censura islamica, ripubblicando le vignette del giornale danese Jyllands-Posten su Maometto che erano state proibite dagli islamici (e anche quella rivista ha subito molti attentati). Il settimanale satirico francese era già stato denunciato in tribunale dalla federazione islamica (e assolto), aveva subito nel novembre 2011 un attentato dinamitardo e il suo sito web era stato distrutto dagli islamisti. Ora il conto è stato saldato. Perché questo accanimento? Perché la satira del Charlie, anche se talvolta eccessiva e maleducata era popolarissima, influente e decisamente orientata contro la censura islamista. E perché gli islamisti per l’appunto non sopportano il dissenso, la satira, la libertà di opinione, che invece fanno parte della tradizione occidentale se non dai tempi di Orazio, almeno da quelli di Rabelais (Pantagruel 1532) , del tedesco Till Eulenspiegel (XIV secolo) dell’italiano Bertoldo (1620), dei buffoni audaci e veritieri di Shakespeare, per non parlare di Belli e Charlot e del Kabarett di Weimar. Chi dice la verità ai potenti, “ridendo castigat mores” è per l’Europa una figura positiva, tutelata anche in tempi di Ancien Régime, anche se la maleducazione e la sfrontatezza sono il sale della satira. Chi non ha sopportato la satira nel Novecento sono state le dittature ideologiche (fascismo, nazismo, comunismo nelle loro varianti) e l’islamismo. L’idea che qualcuno possa essere autorizzato a prendere in giro i simboli più nobili e i personaggi più potenti è intollerabile dovunque il potere non si basi sul consenso ma sulla forza. Per questo la libertà della satira è un indicatore essenziale di vita democratica. Chi dice che le minacce, le bombe, le raffiche di mitra sono una pena meritata per l’irriverenza si prepara a piegare la schiena a un potere intollerante. Chi compie atti di guerra contro scuole, musei, redazioni di giornali satirici sa bene che quel che conta nei conflitti decisivi è la coscienza, l’educazione, la fiducia nel valore fondante di una cultura (che per noi è la libertà). Non bastano gli aerei e i missili a difenderci di fronte alla prospettiva della Sottomissione (per citare il titolo del romanzo di Michel Houellebecq in uscita in questi giorni, che racconta provocatoriamente proprio la voglia francese ed europea di sottomettersi a un padrone islamista “buono”). Bisogna capire che è sotto attacco la nostra libertà e che questa va difesa senza compromessi, anche se qualche volta si esprime in maniera sboccata. Che cosa significa questo in concreto? Innanzitutto non diventare simili a chi ci vuol distruggere: non rinunciare alle nostre garanzie legali e politiche, alla giustizia indipendente, alla libertà di opinione di espressione e di organizzazione, non pensare che l’alternativa all’islamismo sia il fascismo perché questo non è vero: sono due nemici che si somigliano. In secondo luogo, non chiudersi in una fortezza che non reggerebbe: filtrare meglio gli ingressi sì, sapere chi sono gli amici, cioè le altre democrazie del mondo e chi sono i nemici, non fare i furbi alleandoci con chi vorrebbe solo distruggerci. Sapere che il mondo contemporaneo è pieno della nostra tecnologia occidentale, dei nostri cellulari, dei nostri social network, della nostra medicina, della nostra scienza e tecnologia, il nostro “soft power” come dicono gli americani. Non farci travolgere dal disprezzo ideologico dei fanatici, sapere che la nostra civiltà è la più libera, la più prospera, la più pacifica, la più umana che sia mai sorta al mondo. Difendere i nostri valori, il nostro pluralismo, la nostra libertà, prima di tutto la libertà delle donne, ma anche l’assistenza dei più deboli, la pluralità delle culture e delle religioni. Essere fieri della nostra tradizione. Infine capire che non si può essere sicuri a casa se non lo si è nel mondo e questo si ottiene aiutando le democrazie o almeno quelli che si impegnano a non attaccarci e vogliono la nostra alleanza, non rafforzare i nemici sperando che si rabboniscano, combattere il terrorismo dovunque si presenti, senza accordi furbeschi. Se riusciremo a fare questo, a essere noi stessi e ad aver fiducia nei valori che abbiamo costruito nella nostra storia, senza dubbio vinceremo questa guerra.

Notizia tratta da informazionecorretta