Naor Gilon, ambasciatore israeliano a Roma: “Italia non riconosca lo Stato di Palestina” 

 

di Giulia Belardelli, Umberto De Giovannangeli 

 

“Israele non ha alcuna intenzione di suicidarsi per far contento qualche leader europeo. Votare ora per il riconoscimento dello Stato di Palestina non potrebbe essere più sbagliato, per diverse ragioni. Spero che il Parlamento italiano non proceda con questo voto. Di Matteo Renzi ci fidiamo, è un amico di Israele. Ma bisogna tenere alta la guardia sulla tendenza dell’Europa a distinguere tra i terrorismi”. 

  Naor Gilon, ambasciatore israeliano a Roma, non risparmia critiche ai paesi europei che si sono già pronunciati a favore del riconoscimento dello Stato palestinese, discussione che – a meno di slittamenti – dovrebbe iniziare a Montecitorio questo venerdì. A sentirlo parlare si capisce come la pace, in Terra Santa, sia ancora molto lontana. “Di Abu Mazen non possiamo fidarci”, dice Gilon in diversi passaggi di questa intervista. “Inizio a pensare che non sia una figura all’altezza del raggiungimento della pace. E Hamas? Vogliamo parlare di Hamas? Per noi, dal punto di vista ideologico, non c’è differenza tra Hamas, Isis e al Qaeda: quello che vogliono è il califfato, l’imposizione della shari?ah. Oggi più che mai, il popolo ebraico deve difendersi da un nuovo e insidioso tipo di antisemitismo”. 

 

– Negli ultimi mesi diversi Parlamenti europei – Gran Bretagna, Francia, Spagna, Belgio, Danimarca, Irlanda, Portogallo – si sono pronunciati per il riconoscimento dello Stato palestinese, scelta compiuta ufficialmente dal governo svedese. Come valuta questi pronunciamenti? 

  Penso che passi di questo genere non siano costruttivi per il processo di pace, perché israeliani e palestinesi a Oslo hanno concordato sul fatto che i problemi sarebbero stati risolti tramite negoziati diretti. Ora i palestinesi stanno stravolgendo il concetto stesso di Oslo. Pensano sia possibile far arrivare qualcuno dall’esterno a imporre l’esito dei negoziati, senza pagare alcun prezzo. Inoltre, questi voti a favore del riconoscimento dello Stato palestinese sono delle affermazioni teoretiche, quasi delle promesse fatte ai palestinesi: “il mondo ci riconoscerà come Stato”. Ma la praticabilità sul terreno è tutta un’altra storia. La verità è che i palestinesi devono venire a patti con Israele per avere uno Stato. Quindi, in un momento di massima tensione nel Medio Oriente, questi parlamenti non fanno altro che alzare le aspettative dei palestinesi, anche quando poi il risultato, probabilmente, sarà insoddisfacente – perché la vita quotidiana dei palestinesi, verosimilmente, non cambierà grazie ai pareri dei singoli parlamenti europei. Temo che la tensione che segna oggi il Medio Oriente e le relazioni israelo-palestinesi possa creare ulteriori problemi. Un altro aspetto riguarda il piano legale. La legge internazionale stabilisce che per creare uno Stato è necessario avere il controllo effettivo del territorio. Non so quale sia in Cisgiordania l’efficacia del controllo di Abu Mazen, ma penso che possiamo essere tutti d’accordo sul fatto che a Gaza non abbia alcun controllo effettivo. Penso che i voti europei non aiutino il processo di pace da nessun punto di vista, poiché non danno ad Abu Mazen alcuna motivazione per venire a parlare con noi. 

 

– Il Parlamento italiano si appresta a discutere sul riconoscimento dello Stato di Palestina. Cosa si sente di dire ai parlamentari italiani alla vigilia di questa discussione storica? Una parte delle forze politiche, soprattutto sul versante del centrodestra, spinge per un rinvio della discussione perché considera il momento “inopportuno”. Cosa ne pensa? 

  Penso che il tempismo con cui si vorrebbe avviare ora una discussione su questi passi unilaterali dell’Europa non possa essere più sbagliato. Dobbiamo guardare a ciò che è appena successo a Parigi. Per molti ebrei, il messaggio che esce da Parigi è che l’Europa non è più un posto sicuro per gli ebrei. Ora parliamo di questi attacchi perché sono stati terribili, ma non bisogna dimenticare che gli ebrei in Francia vengono perseguitati ogni giorno, anche se non fa notizia. Gli ebrei sono bersagli costanti di un nuovo tipo di antisemitismo. Giorgio Napolitano è stato uno dei primi presidenti a mettere in guardia su questa nuova forma di antisemitismo. Spesso il nuovo antisemitismo si coniuga con posizioni anti-israeliane che mirano alla delegittimazione totale di Israele e del suo diritto di esistere. Il motore che c’è dietro è musulmano, ma ci vediamo anche una combinazione di elementi antisemiti dell’estrema destra e dell’estrema sinistra – probabilmente l’unica componente che hanno in comune. 

Per noi ebrei – e parlo da figlio di un sopravvissuto all’Olocausto – Israele è l’unico posto sicuro al mondo. Non faremo mai nulla che metta a repentaglio questo posto. Se qualcuno dall’esterno pensa di poterci imporre qualsiasi tipo di soluzione che percepiamo come un suicidio – dopo che un terzo della nostra nazione è stato distrutto in Europa – si sta sbagliando di grosso. Gli ebrei oggi hanno Israele, hanno il loro esercito, sono pronti a combattere e a difendere le loro vite. Non commetteremo un suicidio per soddisfare le volontà politiche di alcune persone. Inoltre, il tempismo è terribilmente sbagliato anche dal punto di vista del ragionamento politico. Ora in Israele siamo in piena campagna elettorale. Fino a maggio, non ci sarà un governo effettivo. È come avere un unico proiettile e spararlo nel momento peggiore. L’obiettivo verrà mancato di sicuro. 

 

– Eppure diversi parlamenti – dalla Gran Bretagna alla Francia – hanno fatto valutazioni diverse… Perché l’Italia non dovrebbe seguire questo trend? 

  La maggior parte dei parlamenti europei non sta votando queste risoluzioni. Solo quattro o cinque nazioni si sono espresse in tal senso. La Germania, il paese oggi più potente in Europa, non lo ha fatto. Spero che il Parlamento italiano non si unisca a questa minoranza di parlamenti. Sarebbe un grande errore. Uno dei partiti che in Italia stanno spingendo molto questa mozione ha nel suo simbolo “Libertà” ed “Ecologia”. Qual è l’unico paese in cui è possibile parlare di libertà nel Medio Oriente? Israele. Siamo l’unico paese aperto e liberale, dove le donne sono protagoniste attive della politica e dove può svolgersi un gay pride. E poi: “ecologia”. Noi non sfruttiamo petrolio e gas naturali, siamo i produttori numero uno di tecnologie pulite. E chi è da biasimare? Noi, non Abu Mazen, che non è un leader democraticamente eletto. È un approccio sbilanciato di cui mi dispiaccio molto. Per fortuna, abbiamo tanti amici in Italia, tra cui la maggioranza del governo. 

 

– Ecco, appunto, ci parli del premier Renzi. Le piace la sua leadership? 

  Non voglio dare voti ai politici italiani. Conosco Matteo Renzi da molto tempo, penso che stia facendo bene all’Italia. Credo stia lavorando per ridare all’Italia il ruolo che le spetta. L’Italia è stata un paese leader dal punto di vista economico, industriale, culturale, e lo è ancora. Il potenziale è ancora tutto qui, anche se spesso viene offuscato dallo sconforto e dalla sfiducia. Ci sono problemi come la disoccupazione giovanile che devono essere risolti subito. E penso che Renzi stia davvero cercando di fare qualcosa di buono per il paese. 

 

– Quali sono, per Israele, i passi necessari al raggiungimento della pace? 

  Dovete capire che noi vogliamo la soluzione a due Stati. Da Oslo in poi, tutti i presidenti israeliani, incluso Benjamin Netanyahu, sperano nella soluzione dei due Stati. Noi vogliamo che si arrivi allo Stato palestinese, ma dobbiamo assicurarci che questo non diventi un’altra entità del terrore all’interno del Medio Oriente. Abbiamo già abbastanza entità del terrore attorno a noi. Dobbiamo essere sicuri che se creiamo uno Stato palestinese, esso sia forte, stabile e democratico. Sono almeno sei anni che non riusciamo ad avere dei negoziati seri con Abu Mazen; non è tornato al tavolo neanche durante i dieci mesi di congelamento degli insediamenti. Spesso ci sentiamo dire che questi pareri favorevoli non hanno un valore pratico, ma sono solo un modo di rafforzare Abu Mazen. Il punto è che ora Abu Mazen li sta utilizzando per andare alla Corte penale internazionale, ad esempio. 

 

– Ottocento personalità israeliane, tra le quali premi Nobel e i più affermati scrittori, che certo non possono essere tacciate di essere filo-Hamas o peggio, hanno rivolto un appello all’Europa perché riconosca lo Stato di Palestina. C’è una ex ministra della Giustizia che non può essere considerata un’estremista di sinistra, la signora Livni, che ha abbandonato il governo dicendo: “questo governo è in mano ai coloni e ai loro rappresentanti nell’esecutivo”, in particolare, come lei sa, il ministro dell’Economia Naftali Bennett. Questa parte di opinione pubblica israeliana è una nemica di Israele? E ancora: lei ha detto che Israele è ancora per una soluzione a due Stati. Ma dove dovrebbe nascere, secondo lei, uno Stato di Palestina, visto che una grande parte di Cisgiordania è ormai piena di insediamenti? 

  Come sapete, Israele è un paese democratico, una società molto liberale e aperta, dove è possibile ascoltare tutte le opinioni del mondo, tra cui quelle delle 800 persone in questione – anche se a me risulta siano meno. A breve ci saranno delle elezioni: saranno gli elettori a decidere, e allora vedremo cosa vuole davvero l’opinione pubblica di Israele. Sono certo che la maggior parte degli israeliani, da sinistra a destra, sia contraria a questo approccio unilaterale. Quanto a Tzipi Livni, so per certo che anche lei è contraria a questa risoluzione unilaterale. Solo una minoranza la pensa diversamente, e questo è legittimo. Per ciò che concerne gli insediamenti, la situazione è molto diversa: tutti gli insediamenti che abbiamo, compresa Gerusalemme, coprono tra l’1,5 e il 2% del territorio. Inoltre, la maggior parte delle costruzioni che stiamo facendo sono comprese in ciò che chiamiamo “area di insediamento”; difficilmente costruiamo altrove. 

 

– Quando nel 2005 Sharon decise di evacuare alcuni insediamenti in cui vivevano circa 11mila persone, l’attuale primo ministro Netanyahu – dello stesso partito di Sharon – gridò al tradimento da parte di Sharon, tanto è vero che l’allora primo ministro scisse il Likud e creò Kadima. Se per Israele evacuare da Gaza 11mila persone equivaleva a essere sull’orlo di una guerra civile, e un primo ministro di destra come era Sharon veniva definito un traditore, può spiegare all’opinione pubblica italiana ed europea come sia possibile evacuare, sulla base di un eventuale accordo di pace, 400mila persone? 

  Innanzitutto a Gaza non c’è stata nessuna guerra civile; come in ogni paese democratico, abbiamo avuto delle divergenze d’opinione. Ci sono state delle elezioni, Kadima ha vinto e ha portato avanti la sua linea. Ora non si tratta di evacuare 400mila persone. Come ho detto prima, il numero di persone che non si trovano nell’area degli insediamenti è molto, molto minore. La maggior parte delle persone si trova a Gerusalemme e nell’area di insediamento. Non so dire il numero esatto, ma parliamo di non più di 100mila persone. La maggioranza vive in luoghi che da tempo si assume debbano rimanere di Israele. L’evacuazione dei coloni a Gaza non è stata facile, ma è stata fattibile. Lo avevamo già fatto anche nei Sinai. 

 

– Non pensa che in futuro il problema per Israele, più che Mahmoud Abbas, possa diventare un signore di nome Abu Bakr al-Baghdadi? Lei sa che la società palestinese è comunque la società più pluralistica del mondo arabo, e presumibilmente uno Stato palestinese sarebbe uno Stato meno attratto dal fondamentalismo esasperato. Non crede che rinviando una negoziazione seria con l’attuale leadership palestinese il rischio sia che in Cisgiordania e a Gaza, invece di trovarvi di fronte ad al Fatah e Hamas, vi ritroviate i salafiti e l’Esercito islamico? 

  Abu Mazen non ha alcuna legittimazione e non sta facendo nulla per il bene del popolo palestinese. L’unico che ha provato a fare qualcosa è stato Salam Fayyad, che ora è stato relegato in un angolo. Sto iniziando a pensare che Abu Mazen non sia una figura all’altezza del raggiungimento della pace. Certo, ci può essere di peggio – puoi avere al Qaeda, l’Isis o qualcos’altro – ma è necessario capire che le aspettative di pace con Abu Mazen stanno svanendo. Prendiamo ad esempio la questione dei rifugiati: qualche settimana fa Abu Mazen ha detto che ci sono sei milioni di rifugiati palestinesi che devono tornare nelle loro città. Se qualcuno parla con Israele in questi termini, è chiaro che non vuole la pace. Non si può pensare di fare due Stati, uno senza ebrei e l’altro (dove c’è già un 20% di palestinesi) in cui dovrebbero arrivare qualcosa come sei milioni di palestinesi. E stiamo parlando di dividere una regione più piccola della Sicilia. Sempre più spesso sulla stampa palestinese si leggono incitamenti a uccidere tutti gli ebrei, anche sul sito di al Fatah si vedono cose incredibili. Abu Mazen può anche essere il leader migliore, ma sto iniziando a dubitare che possa bastare per la pace. Il problema è che i palestinesi continuano a essere evasivi sulle due questioni più critiche per Israele: i rifugiati e la sicurezza. Su questi due argomenti non c’è mai chiarezza. Con Arafat l’impressione era quella dell’approccio “a salame”. Con la prima fetta di salame, cerchi di ottenere da Israele quanto più possibile (i confini del 1967). Con la seconda fetta di salame, sfrutti gli strumenti della democrazia e della demografia per creare nel tempo, con i rifugiati, un secondo stato palestinese all’interno di Israele. Questa è la paura di Israele. 

 

– Dopo gli attacchi di Parigi, l’Europa è entrata in contatto con una paura nuova e profonda. Pensa che questo possa in qualche modo avvicinare i paesi europei a Israele? 

  Quando si parla di terrorismo, l’Europa fa differenziazioni del terrore. Il terrore contro Israele viene considerato un atto politico, e come tale un problema da giudicare in modo diverso. Quando il terrorismo è contro l’Europa, invece, si pensa che “oh, è terribile, questo è contro noi europei”. In realtà, dal punto di vista ideologico, non c’è differenza tra Hamas, Isis e al Qaeda. Nel grande quadro, il califfato è nel loro orizzonte. Hanno metodi diversi, Hamas non decapita, lo stile è un altro, ma il modo di pensare è lo stesso. Dal nostro punto di vista, il terrore è sempre terrore. Sfortunatamente non tutti in Europa la pensano così. Hamas non vuole che Israele esista. È lo stesso concetto espresso da al Baghdadi quando dice che vuole conquistare Roma: “Qui avremo la shari’ah”. 

 

(L’Huffington Post, 15 gennaio 2015)