discorso pronunciato il 26 gennaio 2015 a Londra per il BICOM (Britain Israel Communications and Research Centre).

ANCHE SE E’ LUNGO CONSIGLIO DI LEGGERLO Una notte, parecchi anni fa, dopo aver terminato un reportage, uscivo da Betlemme e attraversavo il checkpoint dell’esercito israeliano posto tra la città e la vicina Gerusalemme, dove vivo. Con me, c’erano circa una dozzina di uomini palestinesi, per la maggior parte sulla trentina (la mia età). Nessun soldato era visibile all’ingresso del checkpoint: una precauzione contro gli attentatori suicidi. A portata di sguardo, solamente acciaio e cemento. Seguivo gli altri uomini attraverso il metal detector, lungo un angusto corridoio, mentre eseguivo le istruzioni sbraitate tramite un altoparlante: “Toglietevi la cintura! Sollevate la camicia!” La voce apparteneva ad un soldato che ci osservava da una telecamera a circuito chiuso. Mentre con gli altri uscivo dal checkpoint, aggiustandomi la cintura e i vestiti, avevo la sensazione di valere meno di un essere umano e capii, non era la prima volta, come un simile sentimento possa condurre un individuo alla violenza . I consumatori di notizie, potrebbero ricollocare questa scena nel quadro dell’occupazione israeliana della West Bank che, dal 1967, mantiene i 2,5 milioni di palestinesi abitanti in quell’area sotto governo militare. Comunque, non si tratta qui dei fatti relativi a questa situazione: questi dovrebbero costituire materia di riflessione per gli Israeliani, che vedono le loro democrazia, vita militare e società corrose dalla disuguaglianza vigente nella West Bank. Ma anche questo non è tanto l’argomento in questione.In quanto osservatori del mondo, la domanda che dobbiamo porre è: perché mai, nel corso del tempo, questo conflitto cattura l’attenzione più di qualunque altro conflitto e perché viene presentato così come lo vediamo. Come mai gli accadimenti, in un paese che rappresenta lo 0,01 per cento della superficie del mondo, sono diventati il fulcro delle angosce, della riprovazione e della condanna più di qualsiasi altro evento? Dobbiamo chiederci: come gli Israeliani e i Palestinesi sono diventati il simbolo del conflitto con la C maiuscola, del potente e del debole, come sono diventati le barre parallele sopra le quali i divin intellettuali dell’Olimpo occidentale esercitano le loro acrobazie, non i Turchi e i Kurdi, non i Cinesi Han e i Tibetani, non i soldati britannici e i musulmani iracheni, non i musulmani iracheni e i cristiani iracheni, non gli sceicchi sauditi e le donne saudite, non gli indiani e gli abitanti del Kashmir, non i delinquenti del cartello della droga e i contadini messicani. Domandarsi il perché questo accade, non è affatto un tentativo di evadere o nascondere la realtà. Perciò ho cominciato questo discorso con il checkpoint di Betlemme. Al contrario, chiunque ricercasse una comprensione totale della realtà non può prescindere da questa domanda. La mia esperienza di giornalista fornisce una parte della risposta, e inoltre, solleva questioni urgenti che vanno al di là della pratica del giornalismo. Ho trascorso la maggior parte degli ultimi 20 anni a scrivere da e di Israele, cioè da quando, a 17 anni, ho lasciato Toronto e mi ci sono trasferito. Per i cinque anni e mezzo, tra il 2006 e il 2011, durante i quali, come membro del corpo di stampa internazionale, ho fatto parte dell’agenzia di stampa americana Associated Press in qualità di reporter, ho progressivamente iniziato a notare certi malfunzionamenti nella copertura dei fatti d’Israele, omissioni ricorrenti, altrettanto ricorrenti gonfiature, decisioni prese secondo considerazioni che non erano giornalistiche ma politiche, il tutto nel contesto della storia la più mediatizzata della terra, e servita dal maggior numero di personale implicato in tutto il panorama internazionale. Quando lavoravo all’AP nell’ufficio di Gerusalemme, Israele era coperto da più personale rispetto alla Cina, o all’India o a tutti i circa cinquanta paesi dell’Africa sub-sahariana messi insieme. Questo è rappresentativo del quadro generale. Agli inizi del 2009, per dare un esempio piuttosto comune di una decisione editoriale del genere che intendo, i miei superiori mi avevano chiesto di redigere una storia di seconda mano, ripresa da un giornale israeliano, a proposito di t-shirt offensive che, così si supponeva, alcuni soldati israeliani avevano indossato. Da parte nostra, non avevamo alcuna conferma della veridicità della storia, e comunque, solitamente i media non si occupano dei tatuaggi che i Marines americani o i soldati britannici hanno sul petto o sulle braccia. Eppure, per una delle organizzazioni di stampa tra le più potenti al mondo, le t-shirt indossate dai soldati israeliani erano considerate degne di valore mediatico. Questo avveniva perché cercavamo di incoraggiare l’idea, o di dire apertamente, che i soldati israeliani erano criminali di guerra, e ogni dettaglio che poteva supportare questa immagine doveva essere colto al volo. La maggior parte della stampa internazionale coprì la storia delle t-shirt. Pressappoco allo stesso periodo, un giornalino scolastico citava in maniera anonima soldati israeliani che parlavano di presunti abusi dei quali erano stati testimoni mentre combattevano a Gaza: ebbene abbiamo scritto non meno di tre storie separate riguardo a questo, nonostante – e a ragione – l’utilizzo di fonti ignote ai giornalisti sia assolutamente proibito dal regolamento interno dell’AP. Anche questa storia era una di quelle che dovevamo raccontare. Quando i soldati si fecero avanti per dire che, in effetti, non avevano assistito agli eventi la cui descrizione era stata loro imputata, ma che intendevano solo illustrare ai giovani studenti gli orrori e le sfide morali dello stato di guerra, era naturalmente troppo tardi. Così, in quegli stessi mesi, all’inizio del 2009, due reporter dei nostri uffici, ottennero i dettagli di una offerta di pace fatta ai palestinesi dall’allora Primo ministro israeliano Ehud Olmert parecchi mesi prima, e giudicata insufficiente dai palestinesi. L’offerta proponeva uno stato palestinese sulla riva occidentale e Gaza, con capitale una Gerusalemme condivisa. Questa avrebbe dovuto essere tra le più grosse notizie dell’anno. Ma una proposta di pace israeliana e il suo rifiuto da parte palestinese, non si addiceva alla NOSTRA storia. Il capo dell’ufficio intimava ai due reporter di ignorare l’offerta di Olmert, ciò che fecero, non senza una furiosa protesta da parte di uno di loro, il quale in seguito, qualificò questa decisione come “il più grande fiasco che abbia mai visto in 50 anni di giornalismo”. Ma tant’è, questo era in linea non solo con la pratica all’AP, ma in tutto il corpo di stampa in generale. Le vili t-shirt dei soldati valevano una storia. Testimonianze di abusi anonime e inverificabili ne valevano tre. Una proposta di pace da parte del Primo ministro d’Israele al Presidente Palestinese non doveva essere raccontata per niente. Il vandalismo della proprietà palestinese è una storia. I raduni neonazisti nelle università o nelle città palestinesi non lo sono. Ho visto sopprimere immagini di questi raduni in più di un’occasione. L’odio ebraico verso gli arabi è una storia, l’odio arabo verso gli ebrei non lo è. Per esempio, la nostra politica era di non menzionare ciò che afferma la carta fondamentale di Hamas, secondo cui gli ebrei sono responsabili di aver architettato le due guerre mondiali nonché le rivoluzioni russe e francesi, malgrado questo riveli in modo evidente il pensiero che muove uno degli attori più rilevanti del conflitto. 100 case in un insediamento della West Bank sono una storia, 100 missili contrabbandati dentro Gaza non lo sono. Le istallazioni militari di Hamas in mezzo e sotto la popolazione civile di Gaza non sono una storia. Ma le azioni militari che rispondono a questa minaccia – questo si che è una storia, come l’abbiamo visto tutti la scorsa estate. La responsabilità di Israele per le morti civili che ne conseguono, questa è una storia. La responsabilità di Hamas per quelle morti non lo è. Qualunque giornalista della stampa internazionale che operi in Israele, sia che lavori per l’AP, Reuters, CNN, BBC o per chiunque altro, riconoscerà gli esempi che ho citato qui – su ciò che è una notizia degna di valore e ciò che non lo è – come normale procedura operativa. Durante la mia permanenza nel corpo dei giornalisti, ho potuto vedere dall’interno come i difetti di Israele erano sezionati e ingigantiti, mentre i difetti dei suoi nemici erano cancellati di proposito. Ho visto come le minacce che incombevano su Israele erano trascurate o persino derise, come se fossero un prodotto dell’immaginazione di Israele, anche quando queste minacce si materializzavano a più riprese. Ho visto come un’immagine fittizia di Israele e dei suoi nemici veniva confezionata, lustrata e diffusa fino ad ottenere effetti devastanti, gonfiando certi dettagli, ignorandone altri e presentando il risultato come un’accurata rappresentazione della realtà. A meno che non si pensi che questo non sia mai accaduto prima, potremmo ricordare l’osservazione di Orwell durante la guerra civile spagnola a proposito del giornalismo: ” Già precocemente nella vita, avevo notato che come nessun evento sia correttamente riportato in un giornale; ma in Spagna, per la prima volta, ho visto degli articoli di giornale che non hanno alcun rapporto ai fatti, neanche il rapporto implicito in una menzogna ordinaria… Ho visto, infatti, la storia scritta non per quello che era successo, ma per quello che sarebbe dovuto succedere secondo le differenti linee di partito.” Era il 1942. Nel tempo, capii che i malfunzionamenti che osservavo, e a cui prendevo parte, non si limitavano all’AP. Constatavo che erano parte di un problema più grande, che risiedeva nel modo in cui la stampa funzionava e come essa vedeva il proprio lavoro. La stampa internazionale in Israele non era più un osservatore del conflitto, ma un partecipante al conflitto. Si era spostata da una spiegazione attenta verso una specie di assassinio politico di un attore, facendo le veci della parte che reputava essere nel giusto. Ha valorizzato una sorta di uniformità ideologica, dalla quale non è consentito deviare. E dunque, essendo io partito da una critica limitata a certe decisioni editoriali, mi ritrovavo ora largamente critico della stampa in generale. In fin dei conti, tuttavia, comprendevo che non era solamente la stampa il problema nel suo insieme. La stampa svolgeva un ruolo fondamentale in seno ad un fenomeno intellettuale che aveva le sue radici in Occidente, ma non ne era la causa, o comunque non l’unica causa. Da una parte, era spinta verso una certa direzione dai venti ideologici prevalenti, e dall’altra, alimentava questi venti che soffiavano con maggiore forza. Certi giornalisti vorrebbero farvi credere che le notizie sono create da una specie di algoritmo – che sono un procedimento meccanico, persino scientifico, nel quale gli eventi sono inseriti, elaborati e presentati. Naturalmente, le notizie sono una questione interamente umana e imperfetta, sono il risultato d’interazioni tra le fonti, i giornalisti e gli editori, ognuno dei quali è portatore del proprio bagaglio di fondo e ognuno dei quali riflette, come facciamo più o meno tutti, i pregiudizi del proprio ambiente. A seguito della guerra di Gaza dell’estate scorsa, e alla luce dei recenti eventi in Europa, diventa chiaro che qualcosa di profondo e tossico sta avvenendo. Capire che cosa sia, ci aiuterebbe a capire qualcosa di importante non solo sul giornalismo, ma sulla mentalità dell’Occidente e sulla maniera in cui quest’ultimo vede il mondo. Ciò che si presenta come critica politica, come analisi o come giornalismo comincia, sempre di più, a suonare come la nuova versione di una vecchia musica, vale a dire che gli ebrei sono fonte di guai, una forza negativa negli eventi del mondo e che se questo popolo, in quanto collettività, potesse svanire in qualche modo, tutti staremmo meglio. Questo è, o dovrebbe essere, un motivo d’allarme, e non solo tra i simpatizzanti di Israele o tra quelli interessati a questioni ebraiche. Ciò che sta succedendo in questo stesso momento ha meno a che fare con il mondo della politica che non con i mondi della psicologia e della religione, e meno a che fare con Israele che non con coloro che condannano Israele. L’occupazione della West Bank, con la quale ho aperto questo discorso, sembrerebbe essere al cuore di questa storia, la sua causa originale, così come lo sarebbe del conflitto descritto come il più importante sulla terra. Dunque, qualche parola riguardo a questa occupazione. L’occupazione fu il risultato della guerra mediorientale del 1967. L’occupazione non è il conflitto, il quale ovviamente è precedente all’occupazione. E’ un sintomo del conflitto; un conflitto che rimarrebbe anche se il sintomo in qualche modo si risolvesse. Se guardiamo alla West Bank, che è l’unico territorio attualmente occupato da Israele, e includendo Gerusalemme, vediamo che il conflitto in quell’area ha prodotto 60 vittime l’anno scorso tra palestinesi e israeliani. La fine dell’occupazione libererebbe i palestinesi dalla giurisdizione d’Israele, e libererebbe gli Israeliani dal dover dirigere gente che non vuole essere diretta. Tuttavia, gli osservatori del Medio Oriente, nel 2015, si rendono anche conto che la fine dell’occupazione creerebbe un vuoto di potere che verrebbe colmato, come tutti i vuoti di potere della regione. non da forze orientate verso la democrazia e la modernità, che nella nostra regione variano dal debole all’insignificante, ma da forze potenti e spietate, dagli estremisti. Questo l’abbiamo imparato durante i disordini degli anni recenti in Medio Oriente. E’ successo in Iraq, Siria, Libia, Yemen ed Egitto, e prima ancora a Gaza e nel Libano del Sud. La mia casa a Gerusalemme si trova a una giornata di strada sia da Aleppo, sia da Bagdad. La creazione di un nuovo spazio a disposizione di queste forze, porterebbe i soldati mascherati di nero dell’islam radicale a pochi metri dalle case israeliane con relativi mortai, missili e costruzioni di tunnel. Molte migliaia di persone morirebbero. Oltre all’evidente minaccia per i palestinesi cristiani, le donne, i gay e i liberali che sarebbero i primi a soffrire, questo scenario significa rendere invivibile la maggior parte o tutto il territorio d’Israele e la fine dell’unico spazio sicuro e progressista nel Medio Oriente, dell’unico rifugio sicuro delle minoranze nel Medio Oriente e dell’unico paese ebraico sulla terra. Niente, nessun coinvolgimento o garanzia internazionale, nessun governo sostenuto dall’Occidente o forza militare formata dall’Occidente, niente sarebbe in grado di impedire che ciò accada, come l’abbiamo appena constatato in Iraq. Il mondo accoglierebbe questo risultato con sincere espressioni di cordoglio. Solamente qualche anno fa, io come molta gente di sinistra, avrei respinto questo scenario qualificandolo di apocalittico. Non lo è affatto. Anzi, è il più probabile. Coloro che osservano questo conflitto da lontano sono stati indotti a pensare che Israele si trovi davanti ad una scelta semplice: l’occupazione o la pace. Questa scelta è una finzione. Si dice anche che la scelta dei Palestinesi sia tra l’occupazione israeliana e una democrazia indipendente. Anche questa scelta è una finzione. Nessuna delle due parti ha davanti scelte precise o risultati precisi. Abbiamo qui un conflitto dentro una regione di conflitti, dove non si delinea nessun cattivo chiaro, nessuna vittima chiara, e nessuna soluzione chiara; una delle molte centinaia o migliaia di dispute a carattere etnico, nazionalistico e religioso sulla terra. Attualmente, nel mondo occidentale, l’unico gruppo di persone soggette ad un boicottaggio sistematico sono gli ebrei, oggi giorno indicati con il comodo eufemismo “israeliani”. Negli atenei, l’unico paese che ha la propria “settimana dell’apartheid” è lo stato ebraico. Protestatari hanno manifestato durante lo scarico di merci israeliane sulla costa Ovest degli Stati Uniti, e ci sono regolari appelli al boicottaggio di qualunque prodotto fatto in Israele. Oggi, non esistono al mondo tattiche simili utilizzate contro qualunque altro gruppo etnico o nazionalità, per quanto enormi siano le violazioni dei diritti umani riconducibili al paese d’origine di quel determinato gruppo. Chiunque chiedesse il perché di questo stato di cose, sarebbe accolto al grido de “l’occupazione!”, come se questo fosse una spiegazione sufficiente. Non lo è. Molti tra quelli che vorrebbero porre interrogativi su questo fenomeno non osano farlo per paura di sembrare favorevoli all’occupazione. Questa è stata gonfiata in tal modo che, da un dilemma geopolitico di modesta portata rispetto agli standard mondiali, è diventata la più importante violazione dei diritti umani nel mondo. In questo secolo, nelle varie avventure mediorientali degli USA e della Gran Bretagna, il costo in vite umane è stato molto più alto e molto più difficile da spiegare, di qualunque cosa Israele abbia mai fatto. Hanno comportato occupazioni e provocato violenze che continuano anche ora che sto parlando questa sera. Eppure, nessuno boicotta i professori inglesi o americani. La Turchia è una democrazia e un membro della NATO, eppure la sua occupazione del Nord di Cipro e il suo lungo conflitto con i Kurdi senza stato, tra i quali molti si considerano occupati, sono accolti con uno sbadiglio, e non c’è una “settimana turca dell’apartheid”. Il mondo è pieno di ingiustizia. Miliardi di persone sono oppresse. Nel Congo, ci sono stati 5 milioni di morti. Bisogna che ognuno ammetta che l’avversione verso Israele, tanto di moda tra molti in Occidente, non è liberale, ma è selettiva, sproporzionata e discriminatoria. Semplicemente, ci sono troppe voci, provenienti da troppe parti, che esprimono parole troppo avvelenate perché questo costituisca una mera critica dell’occupazione. La gente che formula queste accuse dovrebbe guardarsi bene dentro, ed è ora che noi guardiamo questa gente bene da vicino. Chiamare per nome e capire questo sentimento è importante, perché sta diventando la tendenza intellettuale chiave del nostro tempo. Potremmo definirlo il “Culto dell’occupazione”. Questo “credo”, perché è di questo che si tratta, utilizza l’occupazione come mezzo per parlare d’altro. Come al solito con le religioni occidentali, al centro di questa questione c’è la Terra Santa. Questo dogma presuppone che l’occupazione non è un conflitto come gli altri, ma che è il Conflitto per eccellenza; che il minuscolo stato abitato da una minoranza perseguitata nel Medio Oriente rappresenta, di fatto, il simbolo di tutti i malanni dell’Occidente, colonialismo, nazionalismo, militarismo e razzismo. Per esempio, durante i recenti moti di Ferguson, Missouri, si è visto tra i manifestanti un cartello che collegava le tensioni tra gli afro-americani e la polizia, alla situazione tra Israele e i Palestinesi. Troviamo i seguaci di questa dottrina tra gli attivisti, gli esperti delle ONG, e i giornalisti ideologi che hanno trasformato la copertura di questo conflitto in un catalogo dei fallimenti morali ebraici, come se la società israeliana fosse diversa da qualsiasi altro gruppo di persone, come se gli ebrei meritassero di essere derisi per aver sofferto e per non essere riusciti a diventare perfetti come conseguenza di questa sofferenza. La maggior parte dei miei ex colleghi della stampa, non fanno parte di questo gruppo. Non sono veri credenti qualificati. Ma il boicottaggio di Israele, e solo di Israele, che è una delle pratiche più importanti di questa dottrina, gode di un appoggio significativo nella stampa, ivi compresi gli editori che erano i miei superiori. Dimostrare simpatia per la situazione difficile di Israele è altamente impopolare nei circoli sociali che contano ed è da evitare assolutamente se si desidera essere invitati alle cene importanti o ottenere una promozione. La dottrina e il suo sistema di convincimento sono controllati dalla narrazione, così come in una scuola i bambini che hanno più seguito sono quelli che decidono quali vestiti indossare o quale musica ascoltare. Nell’ambiente dei giornalisti, dei collaboratori delle ONG e degli attivisti, che è il medesimo mondo sociale, queste sono le opinioni corrette. E questo orienta la copertura. Ecco perché gli eventi di Gaza dell’estate scorsa sono stati descritti non come una guerra complicata come ne sono state combattute tante in questo secolo, ma come una strage degli innocenti. Ed ecco perché questo spiega molte altre cose. Questo tipo di pensiero è diventato così diffuso che per poter partecipare alla vita intellettuale liberale in Occidente, sempre di più bisogna sottoscrivere, almeno apertamente, a questo dogma, in particolar modo se si è ebreo e quindi sospettato de nutrire le simpatie sbagliate. Se sei un ebreo israeliano, la tua partecipazione è condizionata a una pubblica ed abietta dimostrazione di auto-flagellazione. In effetti, la tua partecipazione è sempre più sgradita. Che cosa sta succedendo esattamente? Gli studiosi della storia dell’Occidente notano che, in tempi di confusione e infelicità, e di grande fermento ideologico, i sentimenti negativi tendono ad aggregarsi intorno agli ebrei. Le discussioni relative ai grandi argomenti del periodo spesso finiscono in discussioni sugli ebrei. Per esempio, alla fine dell’800, la società francese era dilaniata tra la vecchia Francia della chiesa e dell’esercito, e la nuova Francia del liberalismo e della legalità. I francesi erano preoccupati per la loro identità nazionale, chi è francese e chi non lo è. L’umiliazione subita da parte dei prussiani era ancora cocente. Tutti questi sentimenti sfociarono intorno alla figura di un ebreo, Alfred Dreyfus, accusato di aver tradito la Francia per avere fatto la spia al soldo della Germania. I suoi accusatori sapevano che egli era innocente, ma non aveva importanza: lui era il simbolo di tutto ciò che volevano condannare. Per darvi un altro esempio: negli anni 20 e 30, i tedeschi risentivano l’umiliazione che avevano subito durante la Grande guerra. E da lì, la questione sugli ebrei traditori che avevano pugnalato la Germania alla schiena. Inoltre, i tedeschi erano allarmati dagli affanni della loro economia e questo creò il dibattito sulla ricchezza degli ebrei e sui banchieri ebrei. Agli albori del comunismo e della guerra fredda, i comunisti alle prese con i loro oppositori ideologici, sparlavano degli ebrei capitalisti e cosmopoliti, oppure dei medici ebrei che tramavano contro lo stato. Contemporaneamente, le società capitaliste minacciate dal comunismo condannavano gli ebrei bolscevichi. Si tratta della stessa ossessione ricorrente. Come scriveva compiaciuto il giornalista Charles Maurras nel 1911: “Tutto sembra impossibile o spaventosamente difficile, senza il provvidenziale arrivo dell’antisemitismo, attraverso il quale tutte le cose ricadono al loro posto e diventano semplici”. Oggi l’Occidente è turbato dai sensi di colpa per l’uso della forza. Ed è la ragione per cui gli ebrei, nel loro Stato, sono additati dalla stampa e altrove come l’esempio primario dell’abuso di potere. Ed ecco perché il “cattivo” per antonomasia, come viene descritto sui giornali e alla televisione, non è altro che il soldato ebreo o il colono ebreo. Non perché il colono o il soldato ebreo sia responsabile di più mali di chiunque altro al mondo – nessuna persona sensata potrebbe affermarlo. Piuttosto perché loro sono gli eredi del banchiere ebreo o del commissario del popolo ebreo del passato. Quando nell’immaginario occidentale, il deterioramento morale rialza la testa, si tende a voler mettere i paraocchi. Ci si potrebbe aspettare che, nel decennio trascorso, la crescente complessità del conflitto mediorientale, avesse eclissato l’idea fissa di Israele agli occhi della stampa e degli altri osservatori. Dopotutto, Israele è una comparsa in quel panorama. In meno di quattro anni le vite umane perse in Siria superano quelle del conflitto arabo-israeliano in un secolo. E in un anno, le morti nella West Bank e a Gerusalemme equivalgono ad una sola mattinata in Iraq. Eppure, è precisamente in quegli anni che quest’ossessione è peggiorata. Questo non ha molto senso, a meno che non capiamo che la gente non è fissata su Israele nonostante tutto quello che succede altrove – bensì piuttosto a causa di tutto quello che succede. Come lo scriveva Maurras, quando si utilizza l’ebreo come simbolo di ciò che è sbagliato “tutte le cose ricadono al loro posto e diventano semplici”. Negli ultimi decenni, l’Occidente è entrato in conflitto con il mondo islamico. I terroristi hanno attaccato New York, Washington, Londra, Madrid e ora Parigi. L’America e la Gran Bretagna hanno causato il disfacimento dell’Iraq e centinaia di migliaia di persone vi sono morte. L’Afghanistan è stato occupato e migliaia di soldati occidentali vi sono stati uccisi, con innumerevoli civili – ma i Talebani imperterriti sono vivi e vegeti. Gheddafi è stato rimosso, e la Libia non sta meglio. Tutto questo è confuso e scoraggiante. La gente vuole risposte e spiegazioni; e queste non arrivano. E’ in quel contesto che il Culto dell’Occupazione ha attecchito. L’idea è la seguente: i problemi del Medio Oriente hanno qualcosa a che fare con l’arroganza e la perfidia degli ebrei, i peccati di ognuno del nostro paese, possono essere proiettati sul vecchio schermo bianco del mondo occidentale. Questa è l’idea che sempre di più viene diffusa nelle università, nei sindacati di lavoratori, e nell’ossessione dei media su Israele. E’ una proiezione, il cui principale strumento è la stampa. Così, qualche settimana fa, un giornalista della BBC davanti alle telecamere, dopo l’assassinio di quattro clienti ebrei in un supermercato di Parigi, suggeriva a uno degli intervistati: ” alcuni critici della politica d’Israele hanno avanzato che anche i Palestinesi hanno sofferto parecchio per mano degli ebrei”. In altre parole, tutto può essere collegato all’occupazione, e gli ebrei possono essere accusati persino degli attacchi contro di loro. Questa non è la voce dei criminali, ma quella degli abilitatori, cioè di coloro che permettono. La voce di coloro che permettono è più subdola di quella dei criminali ed è più pericolosa perché travestita da inglese rispettabile. Questa voce sta prendendo confidenza e si sta facendo più forte. Ecco perché, nell’anno 2015, molti ebrei d’Europa occidentale guardano di nuovo alle loro valigie. In Medio Oriente, ci sono 60 arabi per un ebreo, e nel mondo 200 musulmani per un ebreo. La metà degli ebrei d’Israele, vi si trovano perché nel ventesimo secolo, le loro famiglie furono costrette a abbandonare le loro case, non dai Cristiani in Europa, ma dai musulmani in Medio Oriente. Attualmente, Israele si ritrova con Hezbollah alla sua frontiera Nord, Al-Qaeda a Nord-Est e a Sud, e Hamas a Gaza. Nessuno di questi gruppi desidera la fine dell’occupazione, ma dichiarano apertamente di voler distruggere Israele. Bisogna essere ingenui per richiamare l’attenzione su questi fatti. I fatti non contano: siamo nel mondo dei simboli. In questo mondo, Israele è diventato il simbolo di ciò che è sbagliato, non Hamas, non Hezbollah, non la Gran Bretagna, non l’America, non la Russia. Per dare un senso alle cose, penso che sia importante riconoscere le patologie in gioco. In questo contesto, vale la pena rilevare che non sono affatto il primo a riconoscere un problema – le comunità ebraiche come questa, e in particolare le organizzazioni come BICOM, hanno da tempo identificato un problema e hanno consacrato sforzi immensi per risolverlo. Vorrei tanto che questo non fosse necessario, non dovrebbe esserlo, pur tuttavia lo è, senza ombra di dubbio, lo diventa sempre di più, e ho un grande rispetto per questi sforzi. Molta gente, in particolar modo i giovani, prova difficoltà a conservare l’equilibrio in mezzo a questo furioso assalto ideologico, mascherato con successo da giornalismo o da analisi, e espresso nel linguaggio della politica progressista. Vorrei poterli aiutare a trovare i loro punti di riferimento. Tuttavia, credo che non si debba provare un senso di persecuzione riguardo alla propria identità, il proprio ebraismo o alla relazione che ognuno ha con Israele. L’ossessione è un fatto, ma non è un fatto nuovo, e non dobbiamo lasciarci confinare nella rabbia o trincerarci sulla difensiva. Non dobbiamo lasciare che ci impedisca di cercare di migliorare la nostra situazione, di comportarci con compassione con i nostri vicini, o di continuare a costruire la società modello che i fondatori di Israele avevano in mente. Non troppo tempo fa, mi trovavo a Tel Aviv sul Rothschild Boulevard. La città era trepidante di vita. Ovunque, c’erano segni di prosperità: negli edifici Bauhaus rimessi a nuovo, nei vestiti, nei negozi. Osservavo la gente che passava: i ragazzini con le bici e i tatuaggi, uomini d’affari, uomini con donne, donne con donne, uomini con uomini, tutti che parlavano la lingua della bibbia e delle preghiere ebraiche. I missili sparati da Hamas la scorsa estate erano già un ricordo, lontano solo qualche mese, ma già fagocitato dalla vita spasmodica e irrefrenabile del paese. Numerose gru svettavano dappertutto dove si stavano elevando nuovi immobili. C’erano scolaretti con i loro zaini spropositati e genitori con passeggini. Potevo sentire l’arabo, il russo e il francese e il paese stava andando avanti con un poderoso entusiasmo e una determinazione che rischiano di smarrirsi se tutto quello che vedi è minaccia e odio. Minaccia e odio ci sono sempre stati, e questo non ci ha mai fermati. Abbiamo nemici, ma abbiamo anche amici. Come dice il proverbio, il cane abbaia e la carovana passa. Davanti alle guerre dell’età moderna, uno dei quesiti che si presentano a noi è: che cosa costituisce la vittoria? Nel 21esimo secolo, quando non si conquista o non si perde più un campo di battaglia, quando la terra non passa di mano, e nessuno mai si arrende, che cosa significa vincere? La risposta è che la vittoria non si determina più sul campo di battaglia. E’ determinata dal cuore stesso della società. Chi ha costruito una società migliore? Chi ha dato una vita migliore alla propria gente? Dove c’è più ottimismo? Dove si trova la gente più felice? Un rapporto relativo alla felicità nel mondo indicava Israele all’undicesima posizione tra i paesi più felici della terra. La Gran Bretagna figurava al ventiduesimo posto. Gli intellettuali oppositori di Israele possono farneticare sui fallimenti morali degli ebrei, e mascherare la loro ossessione in tutti i modi possibili. I combattenti di Hamas e i loro alleati possono ergersi sugli ammassi di rovine e dichiarare vittoria. Possono lanciare missili, e sparare nei supermercati. Ma se guardate Tel Aviv, oppure qualunque fiorente sobborgo di Gerusalemme, Netanya, Rishon Letzion o Haifa, allora capirete che questa è vittoria. E’ lì che abbiamo vinto e che vinciamo ogni giorno. Matti Friedman Matti Friedman è un ex giornalista dell’AP: il discorso è stato pronunciato in occasione di una cena del BICOM a Londra, il 26 gennaio 2015. Il BICOM – Britain Israel Communications and Research Centre, creato nel 2002, è un’organizzazione con base in Gran Bretagna, che sensibilizza e promuove nel Regno Unito la presa di coscienza, sui problemi inerenti a Israele e al Medio Oriente.

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