LA SHOAH.

 

L’IMPORTANZA DELLE PAROLE: in particolare di alcune di esse che in questo periodo sembrano aver perso il loro peso, la loro importanza, la loro responsabilità, per l’utilizzo banale e spesso improprio che il linguaggio comune ne fa.

Cosa intendiamo esattamente quando parliamo di Shoah?

 

DAL PUNTO DI VISTA LINGUISTICO.

 Shoah è un termine ebraico che deriva dalla Torah, cioè dalla Bibbia; lo incontriamo più volte, ad esempio, nel Libro di Giobbe col significato di “catastrofe” e di “distruzione”. I grandi eventi tragici, i cataclismi, le sconfitte, le desolazioni venivano anticamente definite dagli ebrei come delle Shoah, cioè sciagure, eventi funesti, sia individuali che collettivi.

 

E’ solo dopo la seconda guerra mondiale che questo vocabolo inizierà ad avere un significato meno generico e più preciso, nel riferirsi alla persecuzione subita dagli ebrei europei sotto il nazismo. Con questo significato circoscritto a un evento storico ben preciso, Shoah inizia, dunque, a diffondersi lentamente nel vocabolario comune, prima in Israele e poi in altri paesi ad incominciare dalla Francia, per definire l’enorme massacro degli ebrei compiuto durante il Terzo Reich.

 

In Italia, da oltre un ventennio, Shoah ha sostituito il vocabolo Olocausto, che invece è di etimologia greca e sottintende un significato religioso di sacrificio a Dio, dunque, appare del tutto improprio per designare un massacro gigantesco in cui le vittime sono state uccise e non hanno affatto scelto di morire per sacrificarsi a Dio, né Dio ha chiesto loro di immolarsi. 

Anche questo termine compare nella Bibbia, per esempio nel Levitico, dove indica i sacrifici che i sacerdoti avrebbero dovuto dedicare al Signore nel futuro Tempio di Gerusalemme.

 

Oggi, in molta storiografia, ma anche nel linguaggio comune, Shoah e Olocausto sono divenuti sinonimi, due termini interscambiabili per denominare lo sterminio degli ebrei, sebbene un discorso serio che affronti la storia di quello che fu il tentativo di distruggere un intero popolo, imporrebbe una maggiore riflessione e consapevolezza circa le parole giuste da utilizzare.

 

Chiamare lo sterminio degli ebrei Olocausto, implica richiamare alla mente di colui che ascolta (o che legge), l’idea di sacrificio e lo spirito religioso che, in un certo qual modo, “giustifica” quanto accaduto, due concetti che con questo crimine non c’entrano davvero nulla. Voglio ricordare che Jeshua, Gesù Cristo, viene definito olocausto, vittima immolata per la salvezza degli uomini.

 

Con quale nome si può designare un evento così spaventoso tanto da risultare inesprimibile dai superstiti del genocidio e inspiegabile per coloro che ascoltano?

Se il vocabolo Olocausto è inadeguato, anzi appare addirittura fuorviante, neppure le parole come massacro o genocidio risultano consone, in quanto non esprimono esattamente come lo sterminio del popolo ebraico sia stato un avvenimento terribile, orrendo e mai visto nel corso degli eventi dell’umanità. Di quale voce, dunque, possiamo avvalerci?

Quale parola, allora, trovare?

 

Ricordiamo che l’uomo si appropria della realtà nominandola, cioè ha bisogno di dare un

senso alle cose mediante le parole; se io non riesco a chiamare qualcosa con un nome, a

inventarmi o a trovare un vocabolo per dirla, quella cosa non esiste né per me, né per

nessun altro, non c’è, perché non ha un nome, non esiste perché non sono in grado di

comunicarla.

È detto anche nella Bibbia: il Signore creò le cose e diede loro un nome, creò l’uomo e lo chiamò Adamo, ecc.

Dunque occorreva dare un nome allo sterminio degli ebrei che lo rendesse dicibile, per farlo entrare nel nostro linguaggio e nelle nostre biblioteche mentali.

 Bisognava, perciò, assegnare un nome al genocidio del popolo ebraico tale da renderlo esprimibile, per farlo divenire un’accezione della nostra lingua e farlo insinuare nella nostra mente, da renderlo, insomma, comunicabile.

Il tentativo di cancellare dalla faccia della terra tutto il popolo ebraico è stato avvertito e identificato come un avvenimento storico molto diverso da tutte le altre stragi dagli storici, dagli accademici, dalle stesse comunità ebraiche, dai superstiti, una tragedia di una portata così terribile da rivelarsi incomprensibile e inspiegabile nella sua totalità, inaudita nella sua mostruosità, inenarrabile e indicibile con i comuni termini a nostra disposizione dal dizionario umano.

Il termine SHOAH, di conseguenza, è stato scelto dai diversi paesi.

 

DAL PUNTO DI VISTA STORICO. la Shoah è stata lo sterminio di circa 6 milioni di ebrei, attuato dai nazisti e dai loro collaboratori, nel periodo compreso tra l’estate 1941, quando la Germania invase l’Unione Sovietica, e il mese di maggio 1945. Gli ebrei vennero perseguitati come nemici del Reich e come razza da eliminare dalla faccia della terra, cercati uno per uno di città in città, fin nelle campagne e dentro gli ospedali o gli ospizi, privati di tutti i loro diritti, isolati dal resto della società, rinchiusi prima nei ghetti o in luoghi di prigionia temporanea e poi deportati in massa verso centri speciali, attrezzati per l’omicidio di massa mediante il gas.

 

In altre parole, possiamo definire la Shoah come il risultato dell’intenzione della Germania di Hitler di riuscire ad uccidere tutti gli ebrei d’Europa. I 6 milioni di morti, cifra purtroppo molto approssimativa, ha costituito un risultato grandioso rispetto al progetto nazista, in quanto in poco tempo sono state uccisi i due terzi di tutti gli ebrei

che vivevano in quegli anni in Europa.

 

Va sottolineato che lo sterminio non è stata affatto una tragica e fatale conseguenza della guerra in cui, si sa, in mezzo ai conflitti capita, purtroppo, che tante vittime innocenti rimangano uccise. La Shoah non è stato un massacro caotico frutto di fanatismo e follia, ma è stato un progetto preparato con metodo, condiviso da tutti gli organi e le istituzioni di uno stato, supportato da una burocrazia molto efficace che ha permesso il raggiungimento di una serie di tappe importanti:

 

– la definizione delle vittime, mediante tutta una serie di leggi e decreti che hanno stabilito chi fosse da considerare ebreo e chi no, al di là del praticare o non praticare

la religione ebraica;

 

– l’espulsione e l’isolamento degli ebrei da tutti i settori della vita sociale, culturale, economica e politica, nel tentativo di cacciarli dai territori dominati dai nazisti;

 

– l’imprigionamento degli ebrei nei ghetti per poterli poi deportare più facilmente verso i centri di sterminio.

 

Il sistema di messa a morte è importante per la specificità della Shoah, perché il nazismo ha scelto di uccidere degli esseri umani, così come si decide di derattizzare un luogo da insetti o animali nocivi, come una gigantesca operazione di disinfestazione.

E in effetti, e qui torniamo al nostro tema delle parole, il linguaggio nazista ha utilizzato

tutta una terminologia specifica per privare le vittime della loro dimensione umana: le persone da uccidere non sono uomini, donne, bambini, ma sono pezzi, cose, bacilli, virus da sterminare, appunto, con un gas concepito proprio per derattizzare.

 

Numerosi studiosi sono giunti alla conclusione che la differenza tra questo genocidio e gli altri consiste principalmente nella radicalità del progetto di sterminio, cioè nell’intenzione politica di uno Stato di riuscire ad uccidere tutti gli ebrei. Gli ebrei sono i nemici da annientare, devono pagare la colpa di essere nati ebrei, dunque vanno uccisi senza una ragione pratica o una giustificazione materiale (occuparne le terre, cacciarli via, depredarli dei beni), “semplicemente” per cancellarne ogni presenza sulla terra.

 

La modalità stessa che venne ideata per la messa a morte di massa (le camere a gas, la

distruzione totale dei corpi mediante il fuoco, la dispersione delle ceneri, la cancellazione di ogni traccia dell’esistenza delle vittime) ha in sé questo intento di annientare non solo la vita, ma anche la memoria di queste persone.

 

Insegnare la Shoah è, dunque, importante, ma il tempo dell’insegnamento non può corrispondere al tempo della commemorazione che è necessariamente un tempo breve (il 27 gennaio per esempio).

La Shoah, come educatore, come insegnante, mi permette di interrogarmi, di interrogare i miei studenti sulle grandi questioni che l’argomento solleva, anche in maniera polemica.

– Come è stato umanamente possibile che uomini e donne comuni, padri e madri amorevoli, mariti e mogli affettuosi nella vita di tutti i giorni, abbiano potuto trasformarsi in carnefici e partecipare allo sterminio di esseri umani innocenti?

– Perché nell’Europa nazista la maggior parte della popolazione è rimasta spettatore silenzioso e inattivo di fronte alle persecuzioni contro gli ebrei?

– Perché il mondo, gli alleati, la Chiesa, gli intellettuali, le comunità ebraiche, non hanno fatto di più per salvare gli ebrei dallo sterminio?

Non abbiamo, adesso, il tempo per poter analizzare ognuna di queste domande, ma con i miei studenti approfondisco ogni possibile sfaccettatura della questione, affinché possano comprendere che la Shoah non è uguale ad altri genocidi. Diversi terribili stermini sono stati commessi ai danni di altri gruppi etnici o minoranze, genocidi di cui molto spesso non si parla più, talmente siamo abituati a vedere quotidianamente scene di violenza intorno a noi.

 

Se partiamo dal presupposto che la Shoah sia inspiegabile, un mistero per la mente umana che non può concepire tanto orrore, rischiamo di bloccare la capacità di formulare le domande. L’importante non è arrivare ad una spiegazione esaustiva, adesso, in questa sede per mancanza di tempo, (molto probabilmente impossibile per Auschwitz), ma è sapersi interrogare a fondo. 

Si evince che, quando parliamo della Shoah, i termini, il linguaggio che impieghiamo devono essere utilizzati con cognizione di causa, specialmente nell’epoca attuale, in cui si vuole ignobilmente sminuire, minimizzare la portata di questa tragedia, se non respingerla apertamente, come alcuni studiosi revisionisti, dietro i quali, in realtà, si celano degli antisemiti pseudo-storici.

Un esempio. Nella Enciclopedia Utet si legge testualmente alla voce Auschwitz: “città della Polonia…, è tristemente conosciuta come sede durante la seconda guerra mondiale, con il vicino villaggio di Brzezinka, in tedesco Birkenau, di due campi di sterminio per ebrei e deportati politici in cui morirono circa 4 milioni di persone”.

 Si notano, oltre ad errori linguistici, degli svarioni che alterano fortemente il significato storico della Shoah.

 Il numero degli ebrei che morirono non erano 4 milioni, non c’è bisogno di aumentare il numero dei morti per ingigantire l’efferatezza del crimine della Shoah.

 Dalle ricerche condotte si può desumere, in maniera approssimativa, che ad Auschwitz ci furono tra 1.100.000 e 1.300.000 vittime, sebbene non si possa risalire con esattezza al numero preciso di morti, perché non ci sono corpi da identificare e moltissimi convogli di deportati ebrei vennero inviati alle camere a gas senza registrarli.

I campi di Auschwitz, inoltre, erano tre e non due. Altro errore. Viene riportato: due campi di sterminio. Solo Auschwitz II, cioè Birkenau era un centro di sterminio, mentre Auschwitz I era un campo di concentramento.

 Come vedete, anche con le parole si può trattare un argomento così tragico con superficialità, mostrando in realtà quale importanza o impatto esso ha nella nostra coscienza, anche da parte dei responsabili di una enciclopedia di carattere divulgativo e altro.

 Si vuole, inoltre, richiamare l’attenzione a non adoperare il linguaggio nazista, come, quando, per esempio utilizziamo la locuzione Soluzione Finale come sinonimico di Shoah, giacché essa determina uno sdrucciolamento semantico nell’ascoltatore.

 La soluzione concerne un problema, si parla di essa quando dobbiamo risolvere un problema. Gli ebrei, quindi, sono un problema. Sono, chissà, più dannosi dei protestanti, dei cattolici, dei metodisti, dei testimoni della torre di guardia?

 Sentiamo oggi, nel linguaggio di comunicazione dei media, ma anche in quello comune, asserzioni e giudizi manifestati con termini che esprimono posizioni di rifiuto riguardo agli ebrei, in particolare quando ci si riferisce all’annoso conflitto medio-orientale tra israeliani e arabi. Assistiamo così, allo snocciolamento di idee antisemite usando l’appiglio della politica del governo israeliano per rivelarle.

 Emerge un quadro dell’ebreo a tinte forti. L’ebreo vuole comandare, crea solo problemi, richiama su di sé avversione, ripugnanza e repulsione.

L’idioma è strettamente connesso alla comunità dei parlanti, rispecchiandone i cambiamenti sociali, politici, storici. Quando esso è utilizzato per dibattere sulla questione politica di Israele tende a liberare la Shoah da ogni implicazione storica.

 Il nazismo, inoltre, adoperava un duplice linguaggio. Da una parte si servivano di termini violenti, rozzi, forti per oltraggiare gli ebrei offendendoli, riducendoli alla stessa stregua di piattole, di bacilli infettivi, di agenti patogeni, di pidocchi, appellandoli con parole simili e, sempre riferendosi a loro, si avvalevano di tutta una batteria di verbi quali stipare, sgombrare, uccidere, sopprimere, annullare, cancellare, smaltire, ripulire, liquidare, sterminare, che vengono adoperati di norma quando ci si riferisce ad oggetti o ad insetti.

 D’altra parte, invece, giacché i nazisti volevano occultare il terribile crimine, ricorrevano a vocaboli più tenui, a perifrasi delicate, ad un lessico, dunque, che sottintende, che dice tra le righe, ma non esprime mai apertamente la realtà della spaventosa tragedia accaduta. Esempio. La gassazione si trasforma in “trattamento speciale”, la deportazione verso i centri di sterminio diventa “evacuazione”, il massacro di massa, “operazione”, l’uccisione dei disabili e degli infermi “morte misericordiosa”, ecc.

 Gli storici e gli accademici concordano nel rifiutate la locuzione Soluzione Finale per indicare il genocidio, in quanto è una definizione impropria ed inesatta perché non rivela l’effettivo disegno, né la volontà da parte dei nazisti, di sterminare tutta la popolazione ebraica.

 I negazionisti adoperano proprio questa espressione per confutare la Shoah. Si tratta di una soluzione, argomentano, per risolvere la questione ebraica definitivamente, non sussisteva, perciò alcun progetto di sopprimere il popolo ebraico, semmai di farlo emigrare fuori dal territorio dominato dal Reich tedesco.

 I revisionisti non ammettono la politica nazista di sterminio degli ebrei. I negazionisti affermano che mancano delle documentazioni scritte dalle quali risulta l’ordine perentorio di sterminare gli ebrei e che non ci sono prove che avvalorino il fatto della la morte di sei milioni di ebrei. Si negano, così le camere a gas e ogni atto criminoso volto alla soppressione del popolo ebraico per demolire l’intera Shoah.

 Questa è una delle forme più pericolose di antisemitismo.

Un altro pericolo è relativizzare, è banalizzare il termine Shoah, utilizzando parole inesatte, improprie che tendono a svuotarla della sua consistenza storica.

Si legge, infatti, tra le righe dei giornali, per esempio, che, per indicare una spaventosa disfatta in una competizione sportiva a livello agonistico, si dice che “è stato un olocausto!”, come quando una squadra perde dopo una partita.

 Solo per fare del sensazionalismo sulla carta stampata per degli eventi profondamente differenti.

Analogamente si è sviluppato una dilatazione dell’area semantica della locuzione sterminio di massa, riferito a tutti gli avvenimenti di assassinio di più individui, anche se manca il disegno politico, l’intenzione e la determinazione di soppressione di un’etnia.

 I giornalisti di alcuni dei quotidiani più prestigiosi, per scatenare suggestive e forti impressioni in chi legge, scelgono espressioni come Soluzione Finale descrivendo alcune guerre dell’Africa o della ex Iugoslavia. Con questo non si vuole minimizzare i terribili crimini di guerra perpetrati in questi luoghi a danno di popolazioni, ma, comunque, non si può dire che è la stessa cosa, perché a questo punto le parole si svuotano del loro pregnante significato originario e sono privati di ogni valore intrinseco.

 Ad un avvenimento ben chiaro e noto, quindi, deve corrispondere una parola precisa: Shoah.

L’uso delle parole è importante, richiede attenzione e responsabilità. Con una parola possiamo distruggere, con una parola possiamo edificare, con una parola possiamo recare grande gioia, con una parola possiamo recare profondo dolore.

Facciamo attenzione al linguaggio che adoperiamo!

 

 

 

D.ssa Nicla Pompea Costantino