Storie, riti, talmud e ricordi. Testimonianze di una comunità che risale ai tempi di Dante.

di Francesco Chiamulera

«Al Nobilissimo Emanuele Romanin Jacur , le più sincere congratulazioni, agli ottimi sposi auguri di ogni migliore prosperità». Firmato: Giuseppe Sarto, patriarca di Venezia e futuro papa Pio X. E’ solo uno dei tanti tasselli di memoria della comunità ebraica padovana, il biglietto di auguri di nozze destinato a un illustre padovano conservato in una delle teche del nuovo Museo della Padova Ebraica, che aprirà i battenti il 21 giugno. Un museo che è un inno alle persone, agli esponenti di una comunità risalente ai tempi di Dante. Al centro del museo le storie di dieci padovani, lungo i secoli: sulle pareti interne della grande sala, nelle nicchie degli antichi matronei oggi chiusi, scorre una videoinstallazione del regista Denis Brotto, che racconta di Don Itzhak Abrabanel, nato a Lisbona nel 1437, espulso dalla Spagna e sepolto a Padova, di Yehudà Mintz, fondatore della Yeshivà (Accademia talmudica) di Padova nel 1460, di Moshé Chayym Luzzatto (Padova 1707 – Acri 1746), mistico, filosofo e scrittore di etica. E ancora, per venire a tempi più recenti, di Giacomo Levi Civita, senatore e poi sindaco di Padova dal 1904 al 1910: sei anni in cui Padova ebbe un primo cittadino di origini ebraiche (proprio mentre a Roma c’era Ernesto Nathan), che volle, tra l’altro, l’acquisizione della Cappella degli Scrovegni da parte del Comune. Fino al parlamentare padovano Leone Romanin Jacur, o all’economista e deputato del Regno Leone Wollemborg , tra gli ideatori del sistema cooperativistico. A questo prendersi per mano tra epoche storiche è dedicato il museo, che è ricco di sontuosi, affascinanti elementi del rito religioso (corone, sefer Torah, testi di preghiera, spartiti musicali, parokhet), di ricordi familiari (contratti matrimoniali, i magnifici candelabri di Chanukkah) ma che riporta sempre al centro le vicende di una comunità. Perché se è vero che oggi, a Padova, conta su circa centosettanta appartenenti, più di ottocento arrivarono ad essere gli abitanti del Ghetto, nel Settecento. Il museo prende posto proprio nei locali della ex Sinagoga tedesca, in via delle Piazze, semidistrutta nel maggio del ’43: la violenza insomma venne prima dell’occupazione tedesca, fu italiana. Una ferita non da poco nei rapporti tra ebraismo e patavinità. Il museo è sorto in neanche sei mesi, tempi record se paragonati, ad esempio, al museo della Medicina, «che è costato trenta volte il nostro», ricorda Davide Romanin Jacur, presidente della comunità ebraica di Padova, senza nascondere la soddisfazione. Una testimonianza, infine, di un intrecciarsi continuo con la vita culturale della città. D’altra parte, fu proprio per l’apertura dell’università agli studenti di ogni confessione che la città attirò nei secoli centinaia di ebrei. E al nuovo rettore dell’Università, «chiunque egli sia, non vogliamo entrare nel merito dell’avvicendamento alla guida del Bo», Romanin Jacur lancia una proposta: istituire un corso di cultura ebraica, «anche pensando alle centinaia di professori di origine ebraica che l’università allontanò nel ’38». Il rabbino capo, Adolfo Aron Locci, che gli è seduto accanto, annuisce. Il messaggio è recapitato.

(art. tratto da notizie su Israele)