Il Giornale, 27 gennaio 2016 “Giorno della memoria” è un’espressione impossibile per i più perché “ci hanno tirato via da sotto i letti, da dentro gli armadi, imprecavano: “Il treno aspetta, dritti all’inferno, alla piazza di carico, all’Umschlag, alla morte”. “Dalle camere tutti ci hanno estratto e hanno frugato in cerca dell’ultimo vestito nell’armadio, dell’ultima minestra. dell’ultima pagnotta”. Quale memoria può sopportare una scena simile? Eppure così racconta Itzak Katzenelson, in poesia, il momento della deportazione, e non è che l’inizio; nel viaggio avviene una prima decimazione in cui i bambini muoiono in braccio alle madri, e i padri, racconta, tenendo in braccio i figli; poi, Katzenelson subisce come milioni, la fine della moglie e dei suoi due bambini, lo sterminio di un popolo enorme, “i bambini mentre venivano ammazzati alzavano le braccia verso di voi”. Chi può vivere questo Giorno della memoria? Chi è capace davvero dei politici, dei religiosi, degli intellettuali che piegano la testa e depongono corone in questo giorno, può solo pensare quello che è successo al Popolo Ebraico in quegli anni? Il tentativo di porre un rimedio, o almeno una toppa sulla vicenda che solo 70 fa ha frastagliato la vita europea ha visto molte fasi, dall’incredulità al pentimento, ha chiamato in causa istituzioni, scuole, corsi, cerimonie, viaggi ad Auschwitz. Ci sono state gentilezza, sorrisi, scuse, moltissime promesse, tutti intitolati “mai più”. Ma, evidentemente le cose non hanno funzionato. Oggi, di nuovo, molti ebrei scelgono di andarsene dall’Europa a frotte, perché in alcuni Paesi non intravedono la speranza di un futuro per sé e per i loro figli. La proposta scandalosa quanto indecente, di togliersi kippà e ogni altro segno distintivo dopo che, ultimo attacco in ordine di tempo, un ebreo è stato attaccato a Marsiglia con un machete da uno dei tanti jihadisti, va insieme al numero record di 10mila emigrazioni in un anno dall’Europa Occidentale, soprattutto dalla Francia. Da qui provengono 8000 persone, seguiti dagli Ucrani (5840), e poi dagli Inglesi, i Belgi, gli Italiani,circa 400, e non sono davvero pochi, date le minuscole dimensioni della comunità italiana. La sequenza di attacchi terroristi è talmente serrata da fornire la ragione immediata della scelta ebraica: prendiamo, appunto, la Francia, dal gennaio al dicembre 2015, e troviamo subito i quattro uccisi al supermarket kasher dopo l’eccidio di Charlie Hebdo, e via via con frequenza insopportabile aggressioni personali, atti di vandalismo, botte, urli a mamme e bambini al parco (“Hitler non ha finito il lavoro”), rapine, assedi in sinagoga e in altre sedi di riunione, scritte, pugnalate, veleni…La maggior parte dei perpetratori dei crimini, in parallelo ai quali scorrono altri delitti in altre nazioni europee, sono islamici jihadisti. Ma, attenzione,non è solo questo il problema: la realtà è che la struttura europea è diventata più o meno consciamente, un guscio accogliente. E’ dal 1979, e poi via via lungo la guerra del Libano dell’82, che si susseguono attentati a Parigi, sul cui sfondo si muovono cortei che urlano contro un inventato “genocidio in Libano” (lo scrissero Le Monde, l’Humanitè, anche Teimoniage Chretien). L’antica avversione anti-israeliana si fa israelofobia, e quindi antisemitismo delle classi intellettuali. L’attuale odio jihadista non è un puro problema sovrastrutturale di cui, alla fine, gli europei potrebbero essere solo molto spiacenti, pur sostenendo che gli attacchi terroristici e il nuovo antisemitismo siano frutto delle recenti ondate migratorie. Non è solo così: gli ebrei che se ne vanno non avvertono più la volontà di combattere il fenomeno, hanno visto cortei ai tempi della guerra difensiva di Gaza inondare Berlino (!) di urla “morte agli ebrei”: è la sensazione che non ci sia più la volontà da parte dei Paesi di origine di contenere l’antisemitismo dilagante, di bloccarlo o almeno di disapprovarlo con tutti i sentimenti, la forza intellettuale e morale, il comune buon senso. L’antisemitismo si è fatto in buona parte dei casi affluente del grande fiume del politically correct, le classi dirigenti quindi non hanno gli strumenti per individuare il nemico e batterlo. Intanto, proibire all’immigrazione islamica di essere antisemita è una operazione culturale gigantesca, che richiederebbe un lavoro capillare sin dall’infanzia: una volta all’Unione Europea chi scrive ha sentito sostenere che mettere fra le condizioni per fornire aiuti ai Paesi arabi quella di rinunciare a esprimere volontà bellicose contro Israele era una pretesa assurda. Anche bloccare l’antisemitismo lo è. Ma lo è persino chiamarlo per nome. Un esempio: quando nel 2004 fu rapito a Parigi il ragazzo ebreo Ilan Halimi dal gruppo della banlieue “i barbari”, torturato e ucciso leggendo il Corano, la polizia batté ogni possibile pista prima di piegarsi all’idea che si trattasse di un rapimento che aveva come obiettivo proprio un ebreo: pensò alla droga, al sesso, alla malavita… La madre di Halimi invano insistette sulla pista antisemita. Così oggi: alleato oggettivo dell’antisemitismo più pratico, quello che minaccia fisicamente gli ebrei, è l’ israelofobia che ormai da decenni fa parte della cultura di base sia della destra che della sinistra, che lascia che di Israele si dicano le cose più assurde, che lo si accusi di genocidio (“fa ai palestinesi quello che i nazisti facevano agli ebrei” è un evidente blood libel antisemita) di apartheid, addirittura come scrisse il giornale svedese Aftonbladet, di uccidere i palestinesi per venderne gli organi. Anche in Italia quando invece di dare la notizia degli attacchi terroristi che tormentano Israele si titola il giornale sul palestinese terrorista che è stato ucciso nel tentativo di fermarlo dal colpire ancora, o come fa la Svezia si accusa Israele di “uccisioni extragiudiziali” perché si difende, si compie un’operazione di supporto evidente all’antisemitismo. Israele, lo Stato degli ebrei, è colpevole, gli ebrei sono colpevoli, è la facile equivalenza. L’Europa non combatte l’antisemitismo: basta guardare alla recente promozione da parte dell’Unione Europea del “labeling” dei beni (vino, prodotti soprattutto alimentari) prodotti nei territori oltre la Linea Verde. E’ una scelta discriminatoria: ci sono 200 conflitti territoriali fra cui alcuni vicinissimi, come quello del Marocco o di Cipro, ma a nessuno l’Europa ha inflitto un bollo, solamente a Israele, che così deve vedere di nuovo prodotti ebraici marcati, come nel passato. L’Europa pretende, in mezzo al mare di violenza Medio Orientale, di disegnarne i confini e quindi i mezzi di difesa di Israele, di sostituirsi alla trattativa prevista. Oppure non è questo lo scopo, anzi, lo scopo non c’è: c’è l’espressione incontrollata di un malanimo, di una mancanza di comprensione che sfiora l’antisemitismo, lo incontra, lo ingloba, lo promuove… Sì, anche nel Giorno della memoria.

Di Fiamma Nirenstein art.tratto da fiammanirenstein.com