Da un po’ di tempo è invalsa l’abitudine giornalistica di usare il suffisso “fobia” fuori dal contesto puramente medico, soprattutto in riferimento a due chiassose presenze sociali che oggi reclamano pubblica attenzione: islam e omosessualità. Islamofobia, omofobia, da dove viene il successo giornalistico di queste due parole? Entrambe sono usate soprattutto da islamici e omosessuali in un atteggiamento di difesa-attacco: “Non osate parlare male di noi, altrimenti vi indichiamo come soggetti psicologicamente tarati, bisognosi di cure mediche e pericolosi per la salute pubblica”, sembrano dire i sostenitori dei due movimenti. Un risultato indubbiamente lo ottengono: quello di intimidire chi “osa” mettere in discussione l’ideologia che li sostiene. Davanti a discorsi su islam e omosessualità si hanno infatti reazioni dello stesso tipo: da noi in Italia la grande maggioranza dei cittadini è quasi sicuramente contraria all’estensione sia dell’islamismo sia dell’omosessualità dichiarata, e soprattutto alla loro presa di possesso di strumenti legislativi, ma molti esitano a pronunciarsi in modo chiaro e pubblico per timore di essere irrisi oggi come islamofobi o omofobi, e domani forse denunciati. Si dice a qualcuno che è islamofobo non tanto per indicare che ha paura dell’islam, quanto per provocare in lui la paura di dire qualcosa contro l’islam. Insomma, se la paura prima non ce l’aveva, adesso gli deve venire. La stessa cosa avviene con l’omosessualità, ma con la differenza che mentre con l’islam qualche paura prima ci poteva effettivamente essere, per quel che riguarda l’omosessualità più che di paura sarebbe più appropriato parlare di disgusto.

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