La differenza con noi europei sta nell’attaccamento concreto alla patria

di Fiamma Nirenstein

I l 7 marzo 2002 alle 1,30 Shlomi Harel, 23 anni, cameriere per fare un pò di soldi dopo la tzava, un orecchino a sinistra e due bulloni a destra, il tatuaggio sul braccio e i capelli a spine, vede un giovane grassoccio che discute con la guardia sulla porta del Cafè Cafit, a Gerusalemme, pieno centro, Emek Refaim. Ha imparato nell’esercito come si fa a identificare una persona che non lo voglia: lo si fa chiaccherare. Gli chiede tutto quello che gli viene in mente: «Dove vai, chi sei, cosa vuoi». Quello risponde solo «non parlo ebraico» in ebraico. «L’ho spinto senza violenza ma con tutto il mio peso verso l’angolo. Non pensavo a niente». Shlomi mi ha raccontato che il ragazzo sudava e balbettava. Il pubblico si appiattisce terrorizzato. «Kmo machina, come una macchina gli ho tolto lo zaino dalle spalle. Mi è caduto, si è aperto, ho visto i fili… Ho avuto fortuna, non è esploso. Ho raccolto lo zaino da terra, l’ho portato nel vicolo. Pensavo: se salta ora ci faccio la figura del cretino perché moriamo tutti lo stesso. Fra eroe e cretino, il confine è quasi nulla. Ma ho anche pensato: meglio che muore uno solo, se ci riesco, piuttosto che tanti… c’erano decine di persone al caffè».

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