La strage di ieri fuori Gerusalemme ci ricorda a cosa servono di Giulio Meotti

ROMA – Qualche giorno fa il governo spagnolo ha annunciato di voler investire altri dodici milioni di euro nel muro che sigilla le sue due enclave, Ceuta e Melilla, contro le infiltrazioni di migranti. La barriera è stata costruita coi soldi dell’Unione europea. “Il muro che chiude l’Europa”, hanno scandito le ong, dopo gli scontri nelle enclave fra migranti e polizia spagnola. Intanto, l’Agenzia per la protezione dei confini degli Stati Uniti diffondeva i prototipi del muro avviato da Bill Clinton e che Donald Trump vorrebbe continuare al confine con il Messico. Nel frattempo, il trentottesimo parallelo, dove c’è il confine fortificato fra la Corea del nord e quella del sud, diventava il posto più caldo della terra. Tutte queste tre barriere sono state costruite per impedire il passaggio di popolazioni, per tenere fuori qualcuno. Lo stesso vale per il muro al confine fra India e Kashmir, il “muro della vergogna” del Marocco nel Sahara o quello che i ricchi sceicchi degli Emirati arabi hanno fatto costruire al confine con il più povero Oman, per citare altri tre fra i cinquanta muri sparsi nel mondo. Poi ci sono le barriere di Israele, dove ieri si è consumato un nuovo terribile attentato. Era mattina, quando un palestinese di nome Nimer Jamal, che su Facebook aveva appena scritto di “temere solo Allah”, con il suo permesso di lavoro si stava avvicinando alla barriera posta a protezione dell’insediamento di Har Adar, poco fuori Gerusalemme, nella cosiddetta “seam zone” a ridosso del fence antiterrorismo. Al checkpoint, i soldati israeliani lo hanno fermato. Jamal ha tirato fuori la pistola e ha ucciso tre israeliani. A Gaza, i palestinesi per strada hanno subito distribuito dolci ai passanti, mentre Hamas salutava “la nuova fase dell’Intifada al Aqsa”. “Questo attentato è il risultato del sistematico incitamento all’odio da parte dell’Autorità palestinese”, ha detto il premier Benjamin Netanyahu. L’attacco ha dimostrato l’importanza del sistema di checkpoint e fence che Israele negli anni ha eretto a protezione di Gerusalemme. “La barriera ha fatto il suo lavoro”, ha detto ieri Nitzan Nuriel, l’ex direttore del bureau antiterrorismo del primo ministro. 60 israeliani sono stati uccisi in attacchi terroristici dall’inizio dell’ultima ondata di violenze, nel settembre 2015. Due settimane fa lo Shin Bet, il servizio segreto interno israeliano, ha reso noto che soltanto nel 2017 Israele ha sventato 200 attacchi terroristici. Eppure, solo le barriere israeliane sono condannate dalla Corte internazionale di giustizia, solo “i muri” di Israele sono trasformati nella mecca degli attivisti della “pace” e solo le sue recinzioni sono condannate dall’opinione pubblica e dai media occidentali. Eppure, nessuno dei paesi recintati e citati sopra vengono infiltrati con il “sacro” scopo di uccidere persone innocenti. Tijuana, la città-simbolo del muro che divide Usa e Messico, non è Qalqilya, la città palestinese a quindici chilometri da Tel Aviv, nota come “Hotel Paradiso”, perché utilizzata da tanti terroristi come punto di passaggio in Israele. E’ vero che chiunque passa da un punto di controllo israeliano viene potenzialmente trattato come ostile. E’ vero che i controlli sono spesso un insulto alla vita quotidiana palestinese. Ma senza i checkpoint, le recinzioni, i blocchi stradali e le barriere, Israele non sarebbe in grado di esistere. E’ questo che ci ricordano i tre morti israeliani di ieri. Art. tratto da il Foglio