Il Giornale, 12 maggio 2018

Gerusalemme vibra di gioia in queste ore, e anche Netanyahu. Si preparano fuochi d’artificio sulla città di David, le strade sono ornate di fiori, il consolato americano si sta trasformando in ambasciata. Benjamin Netanyahu oltre al fragore della solita battaglia che lo accompagna da quando nel 1967 tornò dagli Stati Uniti a 18 anni per arruolarsi nelle unità speciali in una guerra di difesa da cui non si è mai più, in un modo o nell’altro, riposato, sente però adesso anche il respiro dell’apprezzamento, del pensiero positivo, del sorriso che il mondo nega al suo Paese anche quando ha ragione da vendere nella difesa dei suoi cittadini. Adesso non è così: persino l’Ue, dopo che Israele ha risposto all’incursione iraniana, ha riconosciuto il suo diritto a difendersi. Trump ha strappato il patto con l’Iran contro cui Netanyahu si è battuto solo contro tutti per trent’anni; l’Europa non vuole, ma dà molti segni nei discorsi di Macron e Merkel di cominciare a capire che non bastano i proventi degli affari per renderlo potabile.

Il viaggio di Netanyahu a Mosca lo ha visto accanto a Putin mentre l’orchestra dell’Armata Rossa suonava Hatikva, l’inno nazionale israeliano. Il fatto che la stessa notte di martedi, al ritorno, Bibi abbia colpito 50 postazioni militari iraniane sul territorio di. Assad protetto dai russi, significa che le ragioni di Israele non vengono ignorate, e che Putin forse capisce che il suo alleato iraniano in questa fase porta più problemi che vantaggi.

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