Nel 1994 sotto un sole terribile Yzchak Rabin e il re Hussein di Giordania con l’abbraccio di Clinton firmarono nel deserto la pace fra Israele e la Giordania. Un gesto da giganti: la cronista, seduta per ore al sole su gradinate di legno, li guardava commossa e si domandava come potevano resistere senza un cappello in testa. I due concordarono anche uno speciale arrangiamento per delle particule di terra vicino al confine, e il re le affittò fino al 2019 a Israle perchè le coltivasse prevedendo poi un rinnovo per altri 25 anni. Di fatto oggi quella terra produce avocado e olive, i contadini israeliani vengono dai kibbutz ogni mattina. Un arco di pietra con le immagini di Hussein e di suo figlio Abdullah, il re odierno, segnano la proprietà. Ma in quel luogo resta anche la memoria del marzo 1997 quando un soldato giordano sparò a un gruppo di bambine israeliane in gita e ne uccise sette. Hussein andò personalmente a inginocchiarsi davanti ai genitori e a chiedere scusa. Così si fa quando si vuole la pace. Ma re Abdullah non ha la stessa sensibilità, ed ha annunciato con molte fanfare che quella parte del Trattato è abrogata, che la Giordania non darà la sua terra a nessuno, che lui sceglie “Terra Giordana e interessi giordani”. E’ successo qualcosa? No. E’ un’osservazione impropria dato che nessuno la mette in discussione. Certamente, però, molto gradita alla popolazione composta per il 75 per cento da palestinesi, percorsa da fremiti islamisti molto minacciosi, invasa da profughi siriani, pronta ad accusare la monarchia di ignorare la causa palestinese.

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