Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli

Cari amici,

oggi cade la festa ebraica di Purim. Molti di voi sanno di che cosa si tratta, altri ne hanno una vaga idea (il “carnevale ebraico”, ma non è vero, quanto meno bisogna precisare per onestà cronologica che semmai è il carnevale a riprendere la festa ebraica e comunque i contenuti sono ben diversi).

Altri non ne avranno idea. Mi sembra opportuno oggi cercarne una lettura politica e culturale, senza negare con questo i significati religiosi, mistici e anche filosofici che vi sono stati trovati. 
Purim, dunque, parola di origine persiana che significa caso, sorteggio (e di qui il tema filosofico della contingenza storica e della provvidenza), commemora un episodio storico o piuttosto leggendario, dato che non ci sono documenti indipendenti che lo confermino, probabilmente collocato alla corte dell’imperatore Serse il Grande (486-465 aC), quello ricordato dalla storia europea per le battaglie delle Termopili e di Salamina, che peraltro per lui erano guerricciole al confine nord-occidentale di un impero immenso, esteso dall’India all’Egitto. Per il mondo ebraico siamo un paio di generazioni dopo la fine dell’esilio babilonese e la ricostruzione del Tempio (538-520), ma vi è ancora in Persia una diaspora ebraica numerosa, influente e molto integrata, anzi assimilata, che si trova coinvolta negli intrighi di corte.

I protagonisti della storia sono infatti un potente ebreo di corte, Mordechai, e sua nipote Esther. Il primo sventa un tentativo di colpo di stato contro Serse (che in effetti alla fine del suo regno morirà per un intrigo del genere), la seconda diventa la sposa favorita dell’imperatore. Mordechai ha un nemico ambizioso, il visir Haman, che suggerisce a Serse il genocidio di tutti gli ebrei in quanto “popolo separato e disperso fra i popoli di tutte le province del tuo regno, le cui leggi sono diverse da quelle d’ogni altro popolo, e che non osserva le leggi del re”. Separazione, diversità non fedeltà allo stato, estraneità, dunque pericolo: è la percezione fondamentale dell’ebraismo ripetura mille volte dagli antisemiti nei venticinque secoli che sono trascorsi da allora, come uguale è la soluzione: l’eliminazione completa del popolo “separato”.

Grazie a una vicenda un po’ da commedia, fatta di colpi di scena ed equivoci, di seduzione e di astuzia politica, ma anche di lealtà di fierezza e di coraggio, i due eroi di Purim riescono a sventare il genocidio già deciso, ottenendo dall’imperatore non l’annullamento dell’ordine della strage (impossibile perché il sovrano non deve mai contraddirsi) ma il permesso per gli ebrei di difendersi, con la conseguente sconfitta degli antisemiti in una sorta di violenta guerra di resistenza. Molti hanno notato che nel testo ebraico del “Libro di Esther” (parecchio diverso dalla versione greca dei Settanta che è stata adottata dalle chiese cristiane), la divinità non è mai citata, semmai vagamente allusa. Al di là dei suoi significati mistici, la storia parla della necessità, anche per ebrei assimilati come Esther e Mordecai, di prendere le difese del proprio popolo, incita a far da sé e a non temere i nemici potenti.
Vi è questa morale fondamentale in ciò che Mordechai fa dire a Ester per indurla a prendere il rischio di violare le regole dell’ harem reale per intervenire sull’imperatore e indurlo a rinunciare al genocidio: ” ‘Non ti mettere in mente che tu sola scamperai fra tutti i Giudei perché sei nella casa del re. Poiché se oggi tu ti taci, soccorso e liberazione sorgeranno per i Giudei da qualche altra parte; ma tu e la casa di tuo padre perirete; e chi sa se non sei pervenuta ad esser regina appunto per un tempo come questo?’ “. In quell’altrove da cui potrebbe arrivare soccorso e nel carattere forse provvidenziale della scelta di Esther i commenti leggono una traccia di una presenza divina nascosta dietro a questa storia di casi. 
Ma quel che conta è il contenuto morale dell’esortazione di Mordechai, l’etica che essa propone. E’ la morale che manca oggi a tutti gli ebrei antisionisti, agli ultraortodossi che negano il diritto di Israele a difendersi e ai sinistri che “per giustizia” parteggiano per i nemici di Israele; a tutti coloro che sono affetti da quel senso di superiorità verso il proprio popolo che spesso si definisce frettolosamente “odio di sé”, che essi pretendono essere giustizia e fedeltà all’etica ebraica ma andrebbe piuttosto chiamato egoismo. 
Mordechai stesso e Esther nella storia si prendono dei rischi gravi per la sopravvivenza del popolo di Israele e la loro memoria per questo è onorata, la loro tomba in Persia visitata e custodita, come mostra questo raro filmato che devo alla gentilezza di un lettore ( https://www.youtube.com/watch?v=Wp5DWM3l6OA
Anche se sarebbe improprio definirli sionisti perché Israele (che pure in quel momento era una provincia persiana) e il Tempio di Gerusalemme appena riaperto al culto non compaiono affatto nelle loro considerazioni, almeno per quel che riporta il libro, vi è nelle loro azioni il senso di un obbligo collettivo, una lealtà verso i propri fratelli che è la molla profonda della sopravvivenza del popolo di Israele in situazioni di estremo pericolo come questa, che nella storia si sono ripetute molte volte. 
Per questa ragione, dopo una discussione combattuta e del tutto fuori dal comune di cui si ha testimonianza nel Talmud, i grandi maestri dell’ebraismo del secondo Tempio decisero di includere il libro di Esther nel canone biblico, anche se esso sembra più una cronaca di corte che un testo edificante; e di istituire una festa religiosa per un evento che appare del tutto politico e mondano. 
Non solo: la festa e la lettura del libro che ne è il centro sono collocati dalla tradizione ebraica in una posizione del tutto privilegiata: il libro sarà valido, dice rabbi Akiva, uno dei più grandi maestri del Talmud, anche alla fine dei tempi, quando tutti gli altri testi sacri avranno perso il loro significato, e la sua lettura ha la precedenza su praticamente tutti gli altri obblighi rituali, compresi il servizio sacrificale del Tempio, che pure è prescritto dalla Torah: la sopravvivenza del popolo ha la precedenza sul culto, perché ne è la condizione. Senza commentare ulteriormente i dettagli religiosi che definiscono questa festa, è importante comunque capire che essa testimonia come il rischio del genocidio sia pesato sull’ebraismo fin ben prima della Shoah, della cacciata dalla Spagna, dell’Inquisizione, delle invasioni arabe e romane: esso risale al tempo di Serse e anzi, -per via del riferimento genealogico di Haman all’arcinemico del popolo ebraico Amalek, che cercò di distruggerlo subito dopo l’uscita dall’Egitto – ancora prima, a quello del Faraone e di Mosè, cioè della formazione del popolo ebraico. 
Correlativamente l’autodifesa degli ebrei, qualche volta realizzata con la fuga, altre con la lotta, altre ancora col nascondersi, col piegarsi o con la costituzione di uno Stato è la condizione materiale di base la loro sopravvivenza e con essa di quella della religione ebraica e della promessa che essa contiene.
Il nesso fra continuità del popolo e contenuti religiosi spesso sfugge a chi non ha confidenza con la tradizione ebraica, ebrei o non ebrei che siano. L’ebraismo non è una confessione o una fede nel senso cristiano, o meglio non è solo questo. E’ una forma di vita, una catena di esistenza, un modo concreto di essere che è soggetto alle persecuzioni, fragile sempre a rischio di distruzione per assimilazione o per mano degli antisemiti. 
Il contenuto di Purim è la sua autodifesa. Come sapevano bene anche i nazisti: le ultime parole sotto la forca di Julius Streicher, gerarca nazista fra i più fanatici nell’antisemitismo (fu l’editore del più ignobile giornale antisemita del regime, “Der Stürmer”), condannato a Norimberga, suonarono così:«Questa è la mia celebrazione del Purim 1946.» La sconfitta del nazismo e il processo dei gerarchi appariva anche a lui come l’equivalente moderno della storia di Purim. Anche per questo nesso fra la vita del popolo ebraico e la sua identità religiosa, simboleggiato da Purim, è vero quel che afferma Jacob Neusner per tutt’altre ragioni: l’ebraismo e il sionismo coincidono fin dalle origini del popolo ebraico, fin dal Pentateuco l’ebraismo è sionismo e non è possibile separarli.

(art. tratto da informazionecorretta