Commenti di Lea Luzzati, Paolo Mieli

Tutto cominciò la mattina del 5 giugno 1967 alle 7,45. «Volavamo bassi e veloci su un deserto azzurro su nessun riferimento su cui basarci per l’orientamento. Ero molto teso e attendevo il momento nel quale avremmo svoltato verso Sud. Lo facemmo prendendo una rotta che ci avrebbe portato in direzione del delta del Nilo. Sorvolammo alcuni pescherecci ma i pescatori nemmeno alzarono la testa. Poi davanti a noi scorsi la striscia dorata di sabbia davanti al lago Bardawill nel Sinai… Pochi secondi dopo ci apparve il Canale di Suez. Il panorama sotto di noi cambiò. Ora era verde e coltivato mentre ci avvicinavamo al delta del Nilo e alla base aerea di Cairo West». La colonna portante dell’Israel Air Force era costituita da diversi tipi di aerei di progettazione francese, tra i quali non pochi Mirage IIICJ, dove l’ultima lettera della sigla stava per ju4′. Gli aerei volavano fuori della portata dei radar, talmente bassi sul mare da lasciare scie bianche sulla superficie. Poi si levarono, e neanche due ore dopo al capo di stato maggiore dell’esercito d’Israele, il maggior generale Itzhak Rabin, giunse la comunicazione: «L’aviazione egiziana ha cessato di esistere». Dei 420 aerei da combattimento dell’arsenale di Nasser restava poco o niente. Vittoria schiacciante L’operazione Moked («Focus») segna l’inizio della Guerra dei Sei Giorni, cinquant’anni fa: forse il più spettacolare Blitzkrieg della storia, nel corso del quale un Paese minacciato d’estinzione da un fronte più o meno compatto composto da Egitto, Giordania, Siria e Iraq si ritrova per le mani una vittoria schiacciante e un territorio quattro volte più grande – benché fatto in larga maggioranza di sabbia e sassi del deserto del Sinai. Tanto rapida e sorprendente ai limiti dell’incredibile fu la guerra e furono soprattutto i trionfi che l’esercito israeliano inanellò in vertiginosa sequenza su tutti i trionfi – dal Sinai al Golan alla Cisgiordania – quanto estenuanti e drammatici i prodromi del conflitto, pesanti e imprevedibili quelle conseguenze che ancora oggi sono pane quotidiano dei tavoli politici, dei mezzi di comunicazione.

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