Tutta Israele è piena di memoria. Quasi ogni strada che si percorre oggi con la velocità della tecnica è già stata calcata a piedi da Abramo o da Davide o dai profeti, quasi ogni villaggio era lì due o tremila anni fa ed è stato il luogo di una battaglia o di un incontro o di un rito, quasi ogni monte è stato teatro di una profezia, base per una fortezza, rifugio per un fuggitivo. Dato che l’ebraismo non separa la vita nazionale da quella religiosa, quasi ogni luogo del lungo soggiorno e delle molteplici vicissitudini del popolo ebraico in Israele ha anche una risonanza religiosa. Dove ora è Gerusalemme avvenne il mancato sacrificio di Isacco e Giacobbe sognò la scala celeste; nel territorio di Haifa Elia aveva la sua grotta, a Javne, a sud di Tel Aviv si riunì la generazione di maestri che reinventò l’ebraismo dopo che la caduta del Tempio aveva reso impossibile la ritualità antica, sulle pendici della Giudea Davide atterrò Golia, a En Ghedi, l’oasi del Mar Morto lo stesso Davide risparmiò la vita di Saul… e si potrebbe andare avanti a citare episodi per pagine e pagine.
Memoria per gli ebrei, naturalmente, ma anche per i cristiani, dato che la vita di Gesù e degli apostoli si è svolta qui e i nomi dei luoghi in cui hanno agito sono stati ripetuti mille e mille volte nella topografia delle città occidentali: il Carmelo e Sion, il Monte Tabor e il Golgota… La nozione di Terra Santa (o come bisognerebbe piuttosto tradurre dall’originale ebraico: terra di santità) è quasi letterale. Assai più scarse e recenti, ma comunque presenti, sono le memorie dell’occupazione islamica di queste terre, che però non sono mai state centrali per la vicenda religiosa di Maometto, salvo la tarda interpretazione (assente nel Corano) per cui un suo viaggio in cielo sarebbe iniziato da Gerusalemme. Da qualunque punto di vista, ma soprattutto da quello ebraico, una visita di Israele è un esercizio di memoria che apre verso il sacro senza perdere il suo senso storico. I due luoghi che colpiscono più di tutti gli altri i visitatori con la loro carica di memoria, Yad Vashem e Massada dunque testimoniano certamente anche del rapporto di Israele con il sacro, ma riguardano soprattutto l’identità del popolo, la sua esperienza storica.
Yad Vashem è un centro di ricerca, un museo, un sacrario, posto alle porte di Gerusalemme, affacciato sulle colline che digradano verso la costa. Il suo nome (che tradotto letteralmente vuol dire “mano e nome”) significa in sostanza identità, conservazione del senso della propria vita al di là delle sventure e della morte; è tratto da un versetto profetico in cui si afferma che Dio accorderà questo dono fondamentale a chi segue la sua legge. Yad Vashem è il museo della Shoà, il luogo in cui è documentata per i visitatori la barbarie nazista, ma in cui sono raccolti, come annuncia il suo titolo, anche i nomi e le vicende del più gran numero possibile dei sei milioni di vittime. Esse sono sottratte all’anonimato delle fosse comuni e dei forni crematori in cui li voleva sprofondare Hitler: ricordarne l’identità non è riportarli in vita, ma almeno impedirne la seconda cancellazione, per quanto è in potere dei posteri. Esso è anche il luogo in cui sono selezionati e onorati i Giusti che cercarono di assistere i perseguitati e di sottrarli allo sterminio e il centro didattico in cui si lavora per spiegare e preservare il senso del più orrendo crimine nella storia dell’umanità.
Il museo è un tunnel sotterraneo, ai cui lati si aprono le sale dell’esposizione, piene di nomi, di fatti, di immagini, di schermi con filmati, di ricostruzioni dei ghetti e dei campi di sterminio, di materiali recuperati dai luoghi della morte. Percorrerlo è affacciarsi sull’ombra dell’umanità, immergersi negli inferi più neri, condividere un’angoscia intollerabilmente profonda, fino alla lacrime. Quando se ne esce, è difficile trovare la forza per pensare ad altro se non a come fare perché orrori come questo non accadano più. E la risposta implicita ma fortissima sta di fronte al visitatore: alla fine del tunnel appaiono le colline di Israele, coperte dai boschi piantati da generazioni di ebrei come promessa di nuova vita nella patria antica. La risposta alla Shoà è Israele.
Massada è un monte che sorge al fianco del Mar Morto, una specie di grande parallelepipedo di roccia rossastra con la vetta piatta, lunga 600 metri e larga la metà e una punta rastremata. Vi si accede oggi per funivia, o, se qualcuno ne ha la forza, per un ardito “sentiero del serpente”, tutto fatto di ripidi tornanti, che era facile tagliare. E’ un luogo che nell’antichità appariva inespugnabile e per questa ragione vi sorse la più grande fortezza del re Erode e nel 70 della nostra era vi si rinchiusero gli ultimi combattenti per l’indipendenza di Israele contro la conquista romana. Vi fu allora un grande assedio delle soverchianti forze romane, che costruirono una sorta di istmo artificiale dalla collina più vicina, una grande rampa che serviva a fare arrivare a tiro le loro catapulte e alla fine riuscirono a irrompere nella fortezza, ma non trovarono più nessun nemico vivo, dato che tutti si erano uccisi per evitare la schiavitù. E’ il teatro di una sconfitta, in un certo senso quella definitiva per l’ebraismo antico, dato che vi si svolse l’ultimo atto della rivolta che fu soffocata nel sangue con la distruzione del Tempio e l’esilio degli abitanti di Gerusalemme, dando inizio a una diaspora ebraica durata due millenni.
Ma è anche il luogo della resistenza estrema, in cui emerge con forza il rifiuto di piegarsi del popolo ebraico anche di fronte a forze immensamente superiori, la sua ostinazione ad voler essere se stesso ad ogni costo, la scelta della morte sull’abiura. Israele nella storia si è spesso difeso con le armi, in altri momenti invece si è piegato per sopravvivere e ha subito la violenza altrui, ma senza mai smettere di resistere, cioè di riaffermare la propria identità, senza confondersi con i propri oppressori. L’esistenza ebraica, la cui premessa è il rifiuto di assimilarsi, ha avuto sempre questo senso: resistenza. Perciò qui oggi vengono portati a fare il loro giuramento di fedeltà i corpi scelti dell’esercito dello Stato di Israele, quelli che hanno il compito di difenderlo anche con la loro vita. Anche in questo caso la morale è la stessa: lo stato di Israele è la risposta alla distruzione del regno antico e alle persecuzioni della diaspora, come a Yad Vashem Israele è la risposta al genocidio. I due episodi, al di là di tutte le differenze, hanno in comune il segno della resistenza morale, marcato dalla strana coincidenza di data fra il suicidio collettivo di Masada e lo scoppio della rivolta del ghetto di Varsavia, avvenuti entrambi nella stessa data ebraica, il primo giorno della festa di Pesach. La memoria di questi prezzi estremi pagati dal popolo ebraico per mantenere la propria identità è l’ethos della nazione.
A questi due luoghi, notissimi e visitatissimi, io ne voglio aggiungere un terzo, che è molto meno noto fra i visitatori di Israele e conserva però lo stesso ethos. E’ Gush Etzion, il blocco di insediamenti a sud di Gerusalemme e in particolare il museo di Kfar Etzion. I villaggi che costituiscono questo insediamento furono fondati da diversi movimenti ebraici a partire dal 1927 su terreni legalmente acquistati e duramente dissodati, e furono più volte distrutti negli anni successivi per mano dei vicini arabi, anche se naturalmente allora non c’era “occupazione” e neppure lo Stato di Israele, ma solo l’intolleranza e l’odio arabo. Ricostruiti di nuovo nel ’45, i villaggi furono investiti il 13 maggio 1948, due giorni prima della dichiarazione di indipendenza, dalle forze soverchianti della Legione Araba che con la consulenza britannica dalla Giordania marciava per occupare Gerusalemme. I volontari ebrei che dopo aver evacuato donne e bambini si erano fermati per difendere le loro case (e anche Gerusalemme, come riconobbe Ben Gurion) furono quasi tutti uccisi in combattimenti durissimi. Oggi il Gush Etzion è un luogo dall’apparenza idilliaca, con bellissimi alberi e campi rigogliosi. Americani ed europei lo definiscono una “colonia illegale” nei “territori palestinesi occupati”, destinato secondo le intenzioni palestinesi, ad essere distrutto di nuovo. Solo un piccolo museo, nel villaggio di Kfar Etzion, ricorda l’eroismo dei pionieri che lo difesero. Ma il loro spirito, come quello di Massada e del ghetto di Varsavia, è ancora ben vivo e dovrebbe mettere in guardia coloro che aspirano all’eliminazione di Gush Etzion e di Israele. Perché nella tradizione ebraica essere pacifici è un valore e un’aspirazione, ma la volontà di pace non va mai confuso con la resa e la subordinazione. Questo ci insegnano tutti i luoghi della memoria ebraica, ma in particolare questi tre: che per difendere se stessi, la propria libertà e identità non c’è prezzo che non valga la pena di pagare.
Notizia tratta da informazionecorretta