Di Ugo Volli
Cari amici,
questa sera, con una cena rituale (seder) che normalmente si celebra in famiglia o in una comunità, inizia la festa di Pesah.
Da essa, vale la pena di dire a chi non è ebreo, deriva anche la Pasqua cristiana, non solo per una continuità che vale per diverse altre feste, ma anche perché l’Ultima Cena fu probabilmente un seder. Il nome Pesah, che significa passaggio, ricorda un episodio biblico: l’ultima “piaga” delle dieci che colpirono l’Egitto prima che il faraone si decidesse a lasciar libero il popolo ebraico, la morte dei primogeniti, “passò oltre” le case ebraiche, marcate sull’architrave della porta dalle tracce del sacrificio di un agnello prescritto da Mosé. La festa insomma è dedicata all’uscita dell’Egitto, evento capitale e fondativo della storia ebraica. Per tutti gli otto giorni della festa si evitano gli alimenti lievitati e si mangia il pane azzimo, un impasto di sola farina e acqua, senza sale o altri ingredienti, “cotto in fretta” nel precipitarsi della fuga, senza avere il tempo di lievitare; ma è anche il “pane povero” della schiavitù.
Al di là dei dettagli rituali, la festa ricorda la liberazione degli ebrei dalla schiavitù genocida dell’Egitto, come fosse l’uscita da Auschwitz.. Non si liberano solo i singoli, sottoposti a uno sfruttamento della loro forza lavoro esplicitamente progettato per eliminarli e all’uccisione dei figli. Si libera un popolo, che da questa insurrezione ricava anche per la prima volta una dimensione collettiva. Festa della libertà, dunque, festa della vita che trionfa su un progetto di sterminio – il primo di una lunga serie. Ma allo stesso tempo si tratta anche dell’atto fondativo del popolo ebraico, che fino al tempo trascorso in schiavitù era solo un clan familiare ed invece esce dalla prigionia con una fisionomia politica, come una nazione che ha un obiettivo e una missione. Seguendo il testo biblico, è evidente che il riconoscimento di sé degli ebrei come popolo avviene prima dello stabilirsi fra loro di una religione formale, vale a dire della rivelazione della Legge, che avverrà solo sotto il Sinai, sette settimane dopo, ed è ricordata da un’altra festa Shavuot (“le settimane”, nel lessico occidentale Pentecoste, il cinquantesimo giorno). Ma anche se non c’è la religione nel senso formale dei riti stabiliti, il contatto con Dio è travolgente, la liberazione avviene per opera diretta di Dio, come rivendica la narrazione, in seguito a una serie di miracoli assolutamente unica nel testo biblico (il roveto ardente, le dieci piaghe, l’apertura del Mar Rosso), e dunque investe un rapporto immediato e collettivo con Dio. Vita, identità collettiva, liberazione, presenza evidente del divino, fiducia nella sua opera si intrecciano e diventano oggetto della celebrazione. E però è importante capire che l’ebraismo non nasce come una religione, ma come un popolo. Il quale non ha bisogno di “fede”, perché è di fronte a un’evidenza; ma si affida alla guida divina con una “fiducia” enorme, affrontando le armi degli schiavisti, il mare, il deserto sulla base della promessa che riceve. La cultura ebraica è diversa da quella cristiana come differiscono le due Pasque: da un lato l’esperienza diretta e collettiva di un popolo che si libera dalla sofferenza della schiavitù; dall’altra la fede -non priva di contraddizioni, come sottolineano i Vangeli- di un gruppo di discepoli che assiste al supplizio del loro maestro e deve poi aver fede nella sua resurrezione.
Il cuore della cena festiva della Pasqua ebraica è la lettura rituale di un suo “racconto” (haggadà), scritto in epoca talmudica, in cui questi nessi e le loro conseguenze etiche e politiche oltre che religiose sono esposte in una serie di atti, di canti, di riflessioni, che hanno lo scopo esplicito di ottenere che ogni ebreo si consideri lui stesso personalmente uscito dall’Egitto, sappia di essere lui stesso stato schiavo e figlio di “un Arameo errante”, sappia inoltre che il lieto fine della persecuzione non è affatto garantito, perché essa si ripeterà in ogni generazione, perché nuovi oppressori si presenteranno e bisognerà resistervi. Se ognuno deve sentirsi come un sopravvissuto alla Shoà, il suo scopo dev’essere il ritorno nella terra promessa, e per questo che la parte formale del seder si chiude almeno dai venti secoli dell’esilio con l’augurio e l’impegno “leshanà abbà biJerushalaim”, “l’anno prossimo a Gerusalemme”. Il seder è uno straordinario dispositivo della memoria, cui è affidato il messaggio fondamentale dell’identità ebraica. Mosé, che pure è il protagonista nella narrazione biblica, quasi non vi compare. Quel conta è la presenza collettiva del popolo ebraico, che si estende fino a includere i posteri come noi, e il suo rapporto reciproco di fiducia e di fedeltà con Dio, l’applicazione viva di quel patto che è l’obiettivo e insieme il fondamento dell’ebraismo. Chi ancora oggi, a tremilacinquecento anni dalla datazione tradizionale dell’esodo, si ritrova a riprodurre l’alimentazione e l’esperienza del popolo ribelle e fuggitivo di allora, sa che il fulcro della sua identità collettiva si trova lì.
Chiunque voglia capire almeno un po’ l’ebraismo deve confrontarsi con questa memoria, che è centrale nella coscienza ebraica: continuamente ripetuta nelle preghiere, evocata in testa al Decalogo (una delle due versioni, mentre l’altra si riferisce alla creazione del mondo), riproposta come metro di paragone in ogni altra ricorrenza, di ogni altro evento storico. La libertà che gli ebrei ottengono non è assenza di regole, ma la premessa per regole nuove che saranno poi ricevute da Mosè; il passaggio va dalla “schiavitù” umana al “servizio”, condizioni che in ebraico si descrivono paradossalmente con la stessa parola “avodà”. L’autodeterminazione è innanzitutto separazione dagli altri popoli, fedeltà ai propri costumi e alla propria tradizione, consapevolezza della missione stabilita nel patto con Dio e che si sintetizza nella Scrittura – tutto ciò che agli ebrei è stato rimproverato da nuovi faraoni nel corso dei millenni. La libertà consiste in un viaggio, che geograficamente potrebbe essere breve, ma storicamente risulta lunghissimo e va verso un luogo preciso: quella terra dove solo è possibile la vita integrale secondo la Legge.
Vi è un percorso fisico e pedagogico e e morale allo stesso tempo, perfino iniziatico: è la costruzione del popolo, della libertà e della sua vita religiosa che dovrebbero procedere assieme, anche se la Bibbia insiste molto sugli ostacoli, sulle incapacità, sulle rivolte, sui fallimenti che rallentano il cammino. Un contributo fondamentale dell’ebraismo alla cultura occidentale, come molti hanno notato, sta in questa idea della liberazione come percorso di autodeterminazione, addirittura come separazione; e della costruzione della nazione che ne deriva. E’ un modello che ha ispirato in ogni tempo coloro che hanno cercato la giustizia e la libertà, legittimando la specifica idea di nazione e di rivoluzione che ha determinato i destini dell’Occidente. Secondo questa logica essere una nazione significa accettare un destino comune, sentirsi corresponsabili, salvaguardare insieme la propria differenza. Al cuore di questo percorso vi è l’obbligo di scegliersi, di costruire la propria identità, di non accettare di disperdersi e di confondersi, di cambiare e di sacrificare tutto in nome della speranza collettiva, di lavorare duramente per diventare davvero quello che si è. La libertà si costruisce, ascoltando certamente il comando divino (di un Dio che a sua volta ascolta il “grido” di sofferenza degli oppressi), ma rischiando in prima persona, sacrificando il minimo di comodità che comunque consiglia la passività e l’attesa, andando incontro all’ignoto e combattendo per difendere il proprio destino.
Tutto questo e molto altro ancora sarà di nuovo in gioco quando questa sera al tramonto, dopo aver eliminato ogni traccia di cibo proibito dalle proprie case gli ebrei di tutto il mondo si siederanno a tavola indicando “il cibo della miseria che i nostri padri hanno mangiato” e invitando chiunque abbia fame a unirsi e a mangiare, chiunque abbia bisogno a partecipare alla celebrazione. Perché “oggi siamo schiavi qui, l’anno prossimo liberi in terra di Israele”. A chiunque “abbia bisogno” non solo di cibo, ma anche di libertà, inoltro questo augurio, di riuscire a uscire almeno un po’ dall’Egitto (in ebraico “mitzraim”, oppressione) per avvicinarsi almeno un po’ a Gerusalemme (in ebraico Jerushalaim, la città della pace e dell’integrità).
(art. tratto da informazionecorretta)