Perché è così difficile scrivere la storia degli ebrei dei paesi arabi?

Perché è intrisa di mito, si nutre di leggende che vanno sfatate. «Se i rapporti tra arabi ed ebrei erano così idilliaci perché sono bastati pochi decenni, tra il 1945 e il 1970, per svuotare i Paesi arabi e il Nord Africa della sua INTERA popolazione ebraica, comunità millenarie che risiedevano lì ben prima degli stessi arabi, come ad esempio in Iraq dove gli ebrei vi abitavano da duemila anni? Un esodo silenzioso e implacabile, avvenuto senza che nemmeno ci fosse stato bisogno di una espulsione vera e propria, ad eccezione dell’Egitto. Un mondo intero è svanito in pochi decenni, è bastata una sola generazione e la civiltà giudeo araba è andata in frantumi senza che nessuno dicesse una parola». Con queste parole esordisce il grande storico francese Georges Bensoussan, ospite del Festival Jewish and the city, con una folgorante lezione di storia contemporanea tenuta all’Università Statale di Milano, una lettura inedita e originale di una pagina di storia abitualmente marginalizzata dai manuali. Un contributo, quello di Bensoussan, in grado non solo di ribaltare molti luoghi comuni ma di modificare l’atteggiamento storiografico sul tema (argomento al centro del nuovo saggio di Bensoussan e non ancora tradotto in italiano, Juifs aux Pays Arabes). In una sala gremita, introdotto da Guido Vitale, direttore di Pagine Ebraiche, e seguito da un interessante intervento del filosofo Mino Chamla, lo storico Bensoussan smonta mattone dopo mattone, documenti d’archivio alla mano, l’intero edificio farlocco su cui avrebbe poggiato finora il mito dell’age d’or, dell’idillio dei rapporti tra ebrei e arabi e della presunta tolleranza del mondo arabo. «Abitualmente si crede che i rapporti tra ebrei e mondo arabo si siano guastati con la nascita dello stato d’Israele, ovvero a partire dal 1948. Non è così, anzi è una vera bufala che nessuno finora ha avuto il coraggio di smontare. L’antigiudaismo arabo è una realtà storica molto più antica che con Israele non c’entra niente. Chiunque si sia chinato sugli archivi ha potuto capire e toccare con mano la virulenza del sentimento antiebraico nelle popolazioni del Maghreb e del Medioriente. In pieno Ottocento, quando ancora non esistevano né Israele né il Sionismo, si registrano numerosi efferati omicidi in tutto il Nord Africa contro ebrei comuni, generati da odio e invidia sociale. Su quali fonti mi sono documentato? Non quelle ebraiche ma piuttosto sui report dei governanti locali e poi delle amministrazioni coloniali inglesi, francesi, italiane. L’evidenza è che l’antigiudaismo arabo poggi da sempre sulla denigrazione e abbia la sua pietra angolare nella figura dell’ebreo come elemento tra i più disprezzabili nella scala sociale, un paria, una sottospecie. In arabo marocchino si usa una odiosa espressione, Yahud chashak, che significa che il solo fatto di pronunciare la parola ebreo, yahud, ti sporca la bocca ed è quindi rivoltante perfino il fatto di nominarlo. Io vengo dal Marocco sento ancora nelle orecchie risuonare questa offesa. Ma se Israele e il Sionismo non c’entrano nulla, da cosa nasce allora l’antigiudaismo arabo? Risposta: dal processo di modernizzazione e occidentalizzazione delle società ebraiche mediorientali (senza voler dimenticare l’umiliante status di dhimmi che accomunava tutti gli infedeli, i non musulmani, per secoli). La spiegazione è semplice: quando una minoranza disprezzata e umiliata si emancipa diventando più colta e ricca, tutto questo viene percepito come intollerabile, oltraggioso, che dà fastidio, finendo per generare una gelosia sociale distruttiva e omicida», spiega Bensoussan e colpisce la similitudine con la realtà della Germania alla fine del XIX secolo e fino agli anni ’40, un parallelismo che mette i brividi. «Gli arabi videro nell’emancipazione degli ebrei la negazione di sé, un qualcosa che avrebbe impedito loro di continuare ad essere se stessi. In Francia, e in quanto storico, lavorare oggi su un tema così scottante è molto difficile e impopolare», dice Bensoussan. Il punto di partenza resta il mito dell’age d’or, l’età dell’oro, il mito della tolleranza benevola arabo-musulmana verso gli ebrei. Come nasce? Chi lo inventò? Sorpresa: questo mito fu costruito a tavolino, nell’Ottocento, da intellettuali ashkenaziti ansiosi di puntare il dito contro i governi assassini dell’est Europa, contro chi scatenava i pogrom, denunciando così le proprie misere condizioni di vita. Come dire: “guardate come stanno bene gli ebrei nei paesi arabi, e guardate invece come è terribile la nostra condizione, qui nell’est Europa!”. Peccato che di questo mito si sia poi impossessata l’opinione pubblica occidentale e la gauche europea del XX secolo. «Va anche detto, con dispiacere, che la storia degli ebrei orientali è poco e mal conosciuta, in genere considerati dagli studiosi come i parenti poveri della storia ebraica: poche misere pagine, un capitolo striminzito in ogni tomo ponderoso di storia ebraica contemporanea. Senza contare la fatica di molti intellettuali ad abbandonare una visione folkloristica, da thè alla menta e gellaba tradizionale, degli ebrei orientali. Insomma, quella che va scardinata è la mitologia di un mondo arabo tollerante e accogliente, una radioso eldorado se paragonato a un Europa cristiana tetra e antisemita. È stata soprattutto la sinistra occidentale a far suo il mito e oggi è davvero difficile scardinare queste false credenze. Il grande George Orwell aveva sempre messo in guardia dalla difficoltà di abbandonare false illusioni e preconcetti. E anche le parole di Marcel Proust ci aiutano a meglio capire: “I fatti non penetrano mai nel Paese dove abitano le nostre credenze più profonde”, scrive. Come dire che l’evidenza dei fatti non riesce mai a spuntarla contro le idees recues, i pregiudizi e le convinzioni; il disprezzo della verità storica vince sempre in presenza di idee precostituite. Dispiace dirlo, ma il rifiuto di vedere è una ricorrente e frequente passione occidentale. In Francia, specie la sinistra, – la gauche e il gauchismo -, continua a coltivare una visione “incantata” delle relazioni tra arabi-ebrei, un passato mitico e profumato che non è mai esistito. L’idillio giudeo-arabo appare ormai sempre di più un’invenzione pura e semplice, mai esistito, almeno alla luce delle ultime fonti storiche. Così come è falsa l’idea che il sionismo sia una risposta all’antisemitismo: non è stato affatto così poiché si trattò di un movimento di autodeterminazione nazionale scaturito dalla volontà di creare un ebraismo laico, tanto è vero che tutti i padri fondatori non erano religiosi. Un’altra bufala da smascherare è quella per cui la Moschea di Parigi accolse e protesse volontariamente gli ebrei durante la seconda Guerra Mondiale. La cosa è infondata, non esistono uno straccio di documento, prova o testimonianza storica che lo attesti, è un altro mito costruito a posteriori». Ma c’è un altro elemento che aiuta a capire. Va detto che lo stesso mondo ebraico ha sempre voluto edulcorare il passato in terra araba. Esiste una memoria polifonica degli ebrei arabi, una memoria molteplice, a seconda dell’appartenenza sociale e della loro vicinanza al potere coloniale. Non dimentichiamo che stiamo parlando di una società ebraica attraversata da conflitti e disuguaglianze sociali tale quale ciò che avveniva in altri ambiti. Ovvio, quindi, che la memoria dei ricchi borghesi ebrei dei quartieri alti di Casablanca sia del tutto diversa da quella dei diseredati che vivevano nella mellah o nella hara cittadina. «Il punto di svolta si colloca intorno al 1940: è a partire da questa data che prende il via una politica di umiliazione sistematica, una vera e propria epurazione etnica degli ebrei nel mondo arabo. Negli archivi ricorrono ossessivamente due parole: paura e umiliazione», spiega ancora Bensoussan. «Ma il vero problema oggi sapete qual è nella Francia del 2014? Che a raccontare tutto ciò si viene subito accusati di razzismo anti-arabo cosa che vi rende immediatamente non più credibili né autorevoli, intellettualmente impresentabili. L’accusa peggiore è quella di essenzialismo: ovvero il fatto riportare gli arabi a una presunta essenza, categoria razzista e inaccettabile, poiché non ha senso parlare di essenza di un popolo». Occidentalizzazione e modernizzazione finiscono così per scatenare una invidia sociale, una gelosia che diventa risentimento. L’emancipazione degli ebrei era vista dagli arabi come inaccettabile, l’uscita dalla condizione di inferiorità impensabile. Lo stesso discorso valeva e vale ancora per le donne, che nell’economia psichica del mondo arabo vengono sempre accostate agli ebrei e ne condividono il medesimo destino. Ancora oggi rivolgo la mia gratitudine a Albert Memmi, autore misconosciuto per troppo tempo, il primo che raccontò la civiltà giudeo-araba senza paraocchi, con i suoi racconti sugli ebrei di Tunisi. Credo che oggi quello arabo-israeliano sia un conflitto soprattutto antropologico e culturale, che sì ha anche un cotè politico ma che, strutturalmente, va molto al di là del problema palestinese». Bensoussan continua soffermandosi sul milieu intellettuale francese. Il loro mestiere sarebbe quello di vedere, dice, di mantenersi lucidi. E invece un sottile veleno inquina il loro spirito, specie nella sinistra che per decenni chiuse gli occhi sui crimini di Pol Pot, di Mao, di Stalin, dei compagni che sbagliano. Una cecità colpevole e incomprensibile. Il perché? Per non mettersi in discussione e non cadere nella disperazione davanti al fallimento del loro modello culturale», conclude lo storico. Gli fa eco il filosofo Mino Chamla: «Dobbiamo fare buon uso del vissuto. Per questo mi piace riesumare una parola che un pensatore di destra come Giulio Preti scagliò come un insulto contro gli ebrei: l’accusa di essere meteque, meteco, parola che indicava gli stranieri ad Atene, nel periodo della Grecia classica. Aristotele fu il più grande tra i meteci», spiega Chamla. «Ecco, mi piace pensare per gli ebrei del mondo arabo e per me che sono di origine egiziana, a una identità meteca, più ricca e sfaccettata, consapevole che le narrazioni nuove non possono mai essere storie di compiaciuto trionfo o di totale successo: lasciare un paese, perdere tutto, sentirsi esiliato non è mai edificante o bello a dispetto della fortuna che avrai dopo. Una identità, quella meteca, capace di recuperare la dimensione di una “modernità critica”, come fu quella di Edmond Jabès o di Walter Benjiamin». 

Art. tratto da mosaico-cem.it