di Fiamma Nirenstein
L’informazione non è parte neutra del conflitto. Dovrebbe raccontare le sofferenze di entrambi, invece è schierata ideologicamente sempre in difesa dei palestinesi. Anche quando commettono crimini che vengono taciuti. di Fiamma Nirenstein Essere un giornalista che copre la vicenda mediorentale è un nodo identitario molto controverso. A volte sei sottoposto a una “overwhelming question” come dice Elliott: sei un giornalista degno di questo nome se tratti la questione senza metterti al servizio della “causa palestinese”? La risposta della corporazione, e di una buona parte dei lettori è no, essi vorrebbero inchiodare la tua credibilità, il tuo onore professionale a una sua banalizzazione codificata che crea da decenni circoli e sottintesi, che lega e cementa la banda, e la banda stessa altrimenti ti definisce un giornalista a metà. Anche se tu sai che la questione Israelo/ araba è coperta di menzogne, che Israele è una isola sullo 0,2 per cento di un territorio tormentato da conflitti incomparabilmente più sanguinosi, che buona parte del conflitto palestinese è insieme nazionalista, religioso, fanatico e anche terrorista, che i palestinesi non mirano, per la maggior parte, alla soluzione di “due stati per due popoli”, e che le cose le hanno abbondantemente dimostrate. Qualcos’altro conta per i giornalisti, ovvero una convenzione cultuale e politica che ha a che fare con scelte di clan basilari, di essere e non essere e anche con lo spirito del nostro tempo, globalista, contrario alla guerra, alla nazione, alla religione. Personalmente da decenni ho vissuto questa situazione: non vorrei essere fraintesa, mi ha dato soprattutto grandi soddisfazioni morali e anche di pubblico. Nonostante non abbia accettato la lectio vulgaris del conflitto, pure ho ricevuto tanti premi, i miei libri sono andati molto bene, c’è un pubblico che mi segue, radio radicale trasmette un mio programma settimanale e il mio Giornale mi ascolta e mi pubblica, ho fatto due trasmissioni televisive e innumerevoli dibattiti. Inoltre solo grazie al mio ruolo di esperta di politica internazionale, ho avuto l’onore di servire per cinque anni come vicepresidente della Commissione Esteri in parlamento. Poteva andare meglio di così? Si, poteva andare meglio: una sottile disapprovazione mi segue sempre, il discredito mi insegue anche quando non riesce a raggiungermi, sono un agente del Mossad, una ebrea fanatica, una settler, tutto fuorché una giornalista, si sa di già quello che dirà, anzi, l’ha già detto; nei vari giornali in cui sono stata qualcuno mi ha fatto la guerra fino talora a eliminarmi; ho avuto la ventura di ascoltar con le mie orecchie o da frasi riportate che le mie fonti non sono buone, che le mie letture siano viziate, che il mio lavoro insomma non è quello di una vera giornalista. La scusa, per chi ammette la libertà di opinione, perché invece molti altri mi offendono, mi minacciano, mi trattano di tutti i titoli, è in genere quella della ripetitività del mio punto di vista, ovvero: io tengo per Israele, ne riporto le vicende favorevolemente. Ma se posso capire che la mia tendenza naturale a cercare le ragioni di un piccolo Paese assediato da tanto odio possa a certuni apparire sbilanciata, è ben curioso che lo stesso tentativo di delegittimazione non lo si senta mai per tutti quei giornalisti che, certo non più documentati di me che ho passato una vita sulle carte, al telefono, sul campo, hanno l’attitudine opposta: una noiosissima, ripetitiva, ossessiva coazione a ripetere sulle ragioni dei poveri palestinesi, anche quando sono terroristi, anche quando rifiutano ogni accordo di pace, anche quando vengono alla luce prove evidenti della loro malafede in qualsiasi processo di pace, anche quando vengono fuori storie di ferocia paragonabile a quelle dell’ISIS. Perché un altro elemento interessante della delegittimazione è che questa avviene anche quando i fatti sono palmari: durante l’Intifada portai alla luce una serie di documenti che dimostravano i finanziamenti diretti di Arafat al terrorismo suicida, particolarmente ai Tanzim di Marwan Barghuty. Il mio giornale, allora La Stampa, lasciò con spirito liberale che scrivessi il pezzo, ma dire che da qui sia sorta una generale consapevolezza che i terroristi venivano organizzati e gestiti dall’Autorità Palestinese, niente affatto, si seguitò a considerarli schegge impazzite. Anche oggi la lectio brevis relativa a Abu Mazen è che sia un moderato carico di promesse per un processo di pace effettivo: è notevole l’irrilevanza giornalistica dei suoi mezzi di comunicazioni di massa pieni di odio, del suo sostegno pubblico, clamoroso, dei terroristi, con gesti pubblici di sostegno (accoglienza dei terroristi liberati come di eroi nazionali, piazze a loro intitolate, corsi estivi, feste, finanziamenti speciali per chi è in carcere…). In Israele approdano un gran numero di giornalisti, coccolati, iscritti a club esclusivi, nutriti in ristoranti molto buoni che fanno sconti notevoli: più sono avversi e più sono corteggiati. Quasi gli unici giornalisti stranieri invitati a vedere le famose gallerie dall’esercito durante la guerra sono stati quelli di New York Times, giornale molto antagonista. Ma questo non ha salvato Israele durante la guerra di Gaza da un attacco concentrico. Bisogna dire che la gente, legga quel che legga, alla fine è più intelligente di mille pagine scritte: giunta in Italia dopo la guerra invece di vedermi aggredita come credevo mi sono sentita spesso chiedere: “Come fate laggiù, circondati dai terroristi?”. Questa è stata la domanda che mi sono sentita rivolgere dalla gente normale, i tassisti, i negozianti, i conoscenti del quartiere: la doccia di verità sul terrorismo religioso islamico contemporaneo cui il pubblico è stato sottoposto a causa delle decapitazioni dell’ISIS, ha proiettato la sua luce su Hamas, ha coinciso con le foto dei “collaborazionisti” (pare che non lo fossero affatto) incappucciati e giustiziati in ginocchio sulla strada. Tuttavia, questa realtà, e non certo la sofferenza dell’intera popolazione del sud d’Israele sottoposta a bombardamenti quotidiani, ha risvegliato un po’ di buon senso in un mare di estremismo antisraeliano che si è espresso in tutta Europa. Durante la guerra, innanzitutto bisogna capire che al di là delle immagine dei morti e dei feriti palestinesi, da Gaza non è uscito quasi niente. Non c’era che scrivere, tutto era proibito: se non raccontavi della lamentevole sorte dei palestinesi, ti cacciavano, ti minacciavano fin nella vita. Poche voci di giornalisti hanno osato, e in genere quando uscivano dalla Striscia, rivelare la verità dei fatti, cioè che Hamas ha imbastito e condotto una guerra asimmetrica in piena regola, mirando ai civili e usando i suoi civili come scudi umani, le loro case, le scuole e gli ospedali come casematte, punti di raccolta dei propri armati. Hamas ha mescolato i propri armati con i civili, ha sparato dalle finestre di edifici civili, probabilmente non sapremo mai la verità sul numero dei morti e feriti di una e dell’altra parte. Ciò che è uscito da Gaza, salvo per gli exploit di un giornalista italiano, di uno indiano, di una finnica e di un francese che comunque hanno potuto parlare solo dopo che erano usciti, sono quattro storie sulle diecimila che avremmo dovuto conoscere, e che non sapremo mai. La minaccia è un elemento che è sempre stato basilare nella copertura della vicenda palestinese (ricordiamo la storia di Riccardo Cristiano, che addirittura si autodenunciò su un giornale palestinese temendo rappresaglie quando fu mandato in onda da Canale 5 il materiale del linciaggio di due soldati israeliani, o semplicemente io devo pensare a come ho passato 13 anni della mia vita sotto scorta). Ma non è solo la paura immediata, che pure penso abbia il suo effetto, è il discredito e il disprezzo della corporazione e quindi, di conseguenza, dell’opinione pubblica. I giornalisti sono soprattutto sopraffatti da una legge non scritta, da qualcosa che è ben più del conformismo: si chiama senso di identità, la legge non scritta di ciò che un giornalista deve essere e fare. Il suo lavoro, in questa storia, è infatti descrivere le sofferenze del popolo palestinese come “main issue”. I palestinesi non interessano per nessun altro aspetto, chi ne sa molto di più? Sulla condizione delle donne, sulle carceri, sulla corruzione, sulla speranza di certe imprese economiche, chi scrive mai? Sulla loro politica, quella di uno Stato totalitario, sappiamo solo che Abu Mazen è arrabbiato con Netanyahu, e poco più. Durante l’Intifada, prima di Scudo di Difesa che rimise i palestinesi sulla difensiva, la sofferenza più tragicamente evidente era quella degli israeliani: ma avevo un bel fare a raccontare giorno dopo giorno cosa significa il fatto che tutto, gli autobus, i caffè, i supermarket, tutto saltava per aria per mano di terroristi suicidi. I morti, i feriti ovunque, la sofferenza atroce degli israeliani non è mai diventata issue comunicativo centrale, mentre il leit motiv della sofferenza palestinese lo restava comunque, tanto che ricordo la descrizione soprattutto anche mia della casa di Yehye Ayash dopo che fu ucciso con immagine patetica della moglie e del bambino (fotografato con il mitra del papà), l’eliminazione dello sceicco Yassin descritto come un povero paralitico, le fanciulle biancovestite, che salutavano il padre e la madre e accompagnate dal fratello andavano a compire giustificati omicidi plurimi. Erano delle povere, purissime ragazze. La sofferenza sociale dei palestinesi è rimasta erroneamente a lungo lo sfondo di quelli che invece erano delitti puramente ideologici e religiosi. I giornalisti non sono parte neutra nel conflitto, ma parte attiva: infatti essi partecipano alla guerra perché infliggono a Israele una sofferenza morale molto acuta, che si aggiunge all’aggressione continua delle parole di fuoco che ogni Paese arabo (più la Turchia e l’Iran) dedicano a Israele, e di fatto la strenua ricerca delle ragioni palestinesi anche quando non ci sono (per esempio certo, a una mente razionale, ma non a un giornalista straniero è difficile capire perché Hamas bombarda i civili israeliani se non in una logica islamista) crea uno sfondo sociale terzomondista del tutto contraddetta dai fatti. Ogni tanto un giornale pubblica qualche immagine dei mercati di Gaza, che, perbacco, sono pieni di beni e di gente che li acquista. Ma a che vale questo servizio? La storia resta una curiosità, come anche gli aiuti che a camionate entrano a Gaza ogni giorno, i malati curati negli ospedali israeliani. Quello che conta nella cronaca è il soldato crudele che ha picchiato un bambino, o quello che con la sua testimonianza può comprovare la tesi che gli israeliani sono razzisti, predatori, persecutori. La continua disponibilità di soggetti pronti a farlo, è direttamente proporzionale alla tua buona fama di giornalista: cioè, se trovi un soldato delle riserve (cronaca di questi giorni) che rivela le inutili intromissioni nella privacy dei palestinesi alla ricerca di debolezze che consentano poi di estrarre collaborazione, il giornale ti ringrazia e tutti riprendono il tuo pezzo. Se intervisti un gruppo di cristiani che affermano l’indelebile verità (cronaca di questi giorni) che Israele difende i cristiani dall’aggressione islamista, oppure racconti che Israele cura i ribelli siriani che fuggono feriti dentro i suoi confini, sono curiosità, non organica verità. A volte la menzogna raggiunge un vero apogeo, per esempio molti giornalisti hanno lasciato correre l’idea che Gaza rispondesse coi missili alle ricerche degli assassini dei tre studenti rapiti e uccisi: una vera follia, perché questa ricerca si svolgeva nel West bank e inoltre certo non aveva avuto tratti di aggressione alla popolazione civile. Era una ricerca molto accurata, molto tragica, molto determinata, e poi Hamas ha aggredito con i missili. Ed era sempre stata lei ad aver perpetrato il rapimento, e l’ha fatto dopo aver firmato con Abu Mazen per un governo di coalizione! Già, il governo di coalizione: chi si è ricordato, fra i giornalisti che Abu Mazen aveva appena stipulato un patto con Hamas prima della guerra terrorista? Chi ha posto domande su questo punto, al “moderato” anzi moderatissimo Abbas? Di fatto tutta la storia è stata raccontata alla rovescia, nessuno ha osservato da vicino come si svolgeva la guerra in cui i palestinesi che sono morti sono stati vittime soprattutto di Hamas, di un’aggressione senza ragione (Gaza è sgomberata da tempo), dell’assedio senza vergogna non di Gaza ma di un popolo di innocenti, quello ebraico, delle famiglie che vivono nei kibbutz di confine. Non si è potuto leggere se non in accenni di cronaca, la storia della perdita, goccia a goccia, di 64 ragazzi che hanno sacrificato la loro vita senza paura, senza retorica, senza odio, senza sentimenti bellicistici uno a uno, entrando di notte a piedi fra i terroristi di Hamas per salvare la vita del proprio popolo. E’ curioso quanto i media possano disinformare, quanto il conflitto arabo israeliano sia stato ignorato in tutto quello che non serviva all’immagine conformista che doveva essere onorata. Negli anni, bastava guardarsi intorno, chiedere ad Arafat se era lui a promuovere il terrorismo (ne era fiero), leggere i suoi discorsi, intervistare i suoi uomini, andare nelle case delle famiglie dei terroristi appena morti nelle esplosioni; bastava andare a Jenin per vedere che non si era trattato di una strage di palestinesi innocenti ma di una battaglia con morti da ambedue le parti; seguire attentamente la vicenda di Mohammed Al Dura per capire che si trattava di uno scontro a fuoco che forse (e ancora non è certo) aveva causato la morte di un fanciullo, ma che non si sapeva di chi fosse il proiettile. A Gaza si è riprodotta la solita situazione che ha causato tanta disinformazione: per prima cosa, i giornalisti hanno avuto il permesso di guardare solo quello che voleva Hamas, i terroristi non si potevano fotografare, solo le vittime. I guerrieri non esistevano, solo i bambini, ma soprattutto i giornalisti volevano seguitare a partecipare al picnic della verità nascosta, e ritrovarsi a cena all’American Colony di Gerusalemme.
(art.tratto da Shalom.it)