Analisi di Marco Carrai, Leonardo Bellodi
In verde i principali giacimenti di gas di Israele. Quello con una capacità maggiore è Leviathan. Caro direttore, Golda Meir, primo ministro d’Israele dal 1969 al 1974, detta «dama di ferro» ben prima di Margaret Thatcher, diceva spesso che Mosè aveva condotto il popolo di Israele nell’unico territorio del Medio Oriente senza petrolio. Se la signora Meir fosse stata viva il 17 gennaio 2009 avrebbe cambiato idea: quel giorno la società texana Noble ha scoperto al largo della costa israeliana un giacimento di circa 300 miliardi di metri cubi di gas. Due anni più tardi, poco lontano, è stato trovato un altro giacimento da 600 miliardi di metri cubi, che gli israeliani hanno chiamato Leviathan: un mostro marino citato nel libro di Giobbe capace di modificare a proprio piacimento l’ordine e la geografia. Mai nome fu più appropriato: queste scoperte sono destinate a creare un nuovo ordine energetico nel quale Israele può giocare un ruolo di primo piano. I numeri sono infatti di tutto rispetto: Leviathan potrebbe garantire il consumo di gas dei 28 Paesi dell’Ue per più di un anno e quello di Israele per più di 80. E nessuno sa quanto altro gas potrà essere scoperto ancora nella zona. Le conseguenze di queste scoperte sono importanti per il mercato domestico di Israele che, dal 1948, è stato dipendente dalle importazioni di energia, spendendo più del 5% del proprio Pil, con conseguenze per il proprio bilancio e per la propria sicurezza. Oggi Israele diventa autosufflciente dal punto di vista energetico, e potrà contare in più, secondo i calcoli del gabinetto del premier Netanyahu, su 60 miliardi di dollari per la vendita del gas eccedente al proprio fabbisogno. Una cifra enorme che spaventa non pochi economisti: il valore dello shekel, la valuta nazionale, potrebbe aumentare, creando inflazione e rendendo meno competitivo l’export. Ma la reale portata di queste scoperte consiste soprattutto nella fornitura di gas ai propri vicini. A chi, come e a quanto venderlo non sono scelte di tipo economico: sono decisioni che hanno implicazioni geopolitiche. Alcuni Paesi produttori di idrocarburi nel Medio Oriente e Nord Africa hanno in comune un problema non di poco conto: una produzione nazionale che stagna o è in declino e un aumento dei consumi interni risultato del progresso delle rispettive società civili. Poiché i consumi di idrocarburi sono sovvenzionati, produzione in declino e consumi in aumento creano un pericoloso circolo vizioso: ci sono minori entrate derivanti dalla vendita di petrolio e gas sui mercati internazionali e maggiori esborsi per sussidiare i crescenti consumi interni. Il combinato disposto di questi fattori crea disagio sociale e instabilità politica. È il caso dell’ Egitto: nel 2013 le manifestazioni di piazza che hanno rovesciato il governo di Morsi sono state innescate anche dalla penuria di benzina e dalle frequenti interruzioni elettriche. L’Egitto, pur essendo uno stato produttore di idrocarburi, non ha abbastanza gas per coprire i fabbisogni domestici e non ricava abbastanza denaro dalla vendita sui mercati internazionali per far quadrare il bilancio. Circa il 7% del Pil egiziano è assorbito dai sussidi al consumo energetico che a loro volta rappresentano il 70% dell’insieme dei sussidi governativi. Due anni fa, Israele riceveva il 70% del proprio fabbisogno di gas dall’ Egitto. Morsi ha cancellato il contratto e oggi il gasdotto che portava il gas a Israele è vuoto. Basterebbe invertire il flusso, e Israele potrebbe per la prima volta nella storia esportare gas per soddisfare i consumi egiziani. Non solo: in Egitto il gas potrebbe essere trattato per essere esportato verso i redditizi mercati internazionali. Un’operazione che consentirebbe di saldare i legami tra Egitto e Israele e contribuire alla stabilizzazione di una regione che condivide minacce e pericoli derivanti da jihadismo e frammentazione di Siria e Iraq. Forse l’operazione «gas for peace» è già iniziata: Israele ha firmato a giugno un accordo per la fornitura di gas per i prossimi 20 anni alla compagnia elettrica palestinese e, sempre quest’anno, un contratto per una fornitura di gas per 15 anni alla Giordania, gas che prima Amman acquistava dal Cairo. L’accordo tra Israele e Giordania è stato fortemente voluto, seguito e incentivato dall’amministrazione Usa. II capo della diplomazia energetica del dipartimento di Stato era presente alla firma e non era certo la prima volta che incontrava le parti. Washington ha capito l’importanza che le nuove scoperte di gas potrebbe avere per la regione. L’Europa è stata finora assente: eppure l’Europa e in primis l’Italia, vista la vicinanza geografica e culturale con i Paesi del Mediterraneo, potrebbe e dovrebbe giocare un ruolo dl primo piano. Il gas del bacino del Levante infatti potrebbe arrivare in Europa riducendo in parte la dipendenza dal gas russo. Certo i problemi non mancano: economici (si tratta di gas piuttosto caro), logistici (non è chiaro come potrebbe arrivare in Europa), politici (le infrastrutture devono attraversare le zone di interesse economico di Turchia e Cipro). Ma la sicurezza energetica europea e il contributo che il nuovo gas può dare a una regione che è a poche centinaia di chilometri dalle coste dell’Ue consigliano, anzi impongono, il massimo sforzo diplomatico e tecnico da parte dell’Europa e dell’Italia.
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