Il Giornale, 19 gennaio 2015
Negli anni in cui ancora pensavamo che la democrazia fosse esportabile, l’Islam moderato è stato il protagonista di una quantità di iniziative. Nathan Sharansky, Bernard Lewis, Vaclav Havel, Aznar, io stessa con la Fondazione Magna Carta, intellettuali americani fra cui lo storico della cultura islamica Harold Rhode abbiamo creato molteplici occasioni a Washington, a Roma, a Praga, perché i democratici parlassero al mondo. Ci abbiamo creduto solo noi: le loro voci sono state ritenute “di destra”e affossate, e oggi piangiamo l’Islam moderato, mentre ascoltiamo il mantra che “l’Islam è una religione di pace”. Se anche lo fosse, in questo momento non importerebbe. Se anche esistono gruppi di islamisti moderati, in questo momento l’onda alta è legata a un’interpretazione dell’Islam dominatore e crudele.
E’ del tutto evidente che oggi i messaggi positivi di questa religione sono sovrastati da fenomeni aggressivi, e che di questi ci si deve occupare. Dispiace, ma bisogna guadare nelle madrasse, nelle associazioni “culturali”, fra i neoconvertiti, interrogandoci anche sul tema del reato di opinione. L’Islam va osservato con l’occhio nuovo della storia attuale. L’integrazione non ha funzionato e anzi la seconda e la terza generazione tendono a radicalizzarsi più della prima. Perché, quali che siano le nostre ragioni e i nostri torti vince nei giovani musulmani un desiderio di identità che si identifica con la sharia interpretata secondo i più antichi criteri. Come se, seguendo le regole della Bibbia, si condannassero adultere e traditori a fuoco, piombo fuso e lapidazione.
L’Isis ha messo in scena, dal taglio lento delle teste, al lancio dai tetti degli omosessuali, le fantasie che a noi vengono porte sublimate e digerite nei film dell’orrore. Ovvero: in ciascun uomo esistono pulsioni sanguinarie, inconfessabili desideri di morte, ma appunto tali vengono considerati dalla nostra cultura. L’avere liberato una massa di crudeltà visibile tanto facilmente nel cyberspazio rende fattibile ciò che non si fa, comune ciò che è rara perversione. La sharia così viene assunta da una massa come scusa per scatenare ogni pulsione crudele, violare le norme universali che bandiscono la violenza diviene dovere religioso. Se a questo si unisce il fatto che il 74 per cento degli egiziani e l’84 per cento dei palestinesi desidera che la sharia sia applicata completamente, la prospettiva risulta drammatica. Perché applicare la sharia significa, per una larga maggioranza nel mondo islamico, che chi non la applica deve essere punito.
La marea investe ora la politica europea: per esempio, il 27 per cento dei musulmani francesi è a favore dello Stato Islamico.
Per l’Islamismo, questa guerra è indispensabile in tutto il mondo, ma soprattutto nei luoghi che sono stati sotto la dominazione islamica. Deve essere chiaro: per l’Islam, l’Europa è un diritto. Ricorda l’ambasciatore Dore Gold che per l’Islam la conquista dell’Europa è una guerra di civilizzazione, che la Spagna, detta “Al Andalus”, fu sotto il dominio islamico dal 711 al 1492, che da là si era espansa in Francia. Yussuf Al Qaradawi dalla tv del Qatar ha detto nel 2007 che “la conquista di Roma e dell’Europa significa che l’Islam tornerà in Europa di nuovo”.
Obama ha sbagliato non andando a Parigi: temeva una colpevolizzazione eccessiva dell’Islam.
L’Europa, ha detto Obama, deve fare meglio con i musulmani, e ha portato l’America come esempio di integrazione. Ma dal 1972 ci sono stati ben 71 attacchi terroristi di origine religiosa negli USA fra cui Fort Hood e Boston. Inoltre, gli attacchi hanno preso di mira non necessariamente i responsabili di offese, ma i violatori della sharia: fra le vittime, ci sono molti più musulmani che cristiani o ebrei. Questo dovrebbero ricordarselo tutti quelli che sostengono che il conflitto israelo-palestinese è la causa della violenza islamista. In Europa, inoltre, la scelta di una quantità di giovani di islamizzarsi si chiama origine, identità, predominio. Un’altra molla propulsiva è la vilificazione delle donne, la violenza, la convinzione istituzionalizzata che una donna valga meno di un maschio.
Scrive il giornalista israeliano Ben Dror Yemini che “chi opprime il 50 per cento della propria comunità sarà a sua volta oppresso… le società che producono eguaglianza non producono terrorismo. Le società patriarcali generano oppressione e fondamentalismo”. Piace, a volte, ricordare con poetica civetteria l’harem, il velo che ripara da occhi indiscreti, l’onore dato alla madre. Ma è davvero questo che ci interessa oggi? O piuttosto l’esplosivo pacchetto di violenza che ci è stato consegnato a sorpresa? Chiedetelo ai moderati veri.
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