DAL CORRIERE DELLA SERA
Solo da noi mi pare l’Onu è considerata quasi una sorta di sede
della coscienza universale, di unica titolare autorizzata a
giudicare che cosa è bene e che cosa è male
di Ernesto Galli della Loggia
Meglio chiarirlo subito: per sbarrare la strada all’Isis va benissimo
cercare ogni possibile via diplomatica (puntare al «dialogo» mi sembra
davvero un po’ troppo); egualmente giustissimo non affrettare in alcun
modo un’eventuale soluzione militare della questione Libia. Tutto ciò
per dire che in vista di qualunque decisione nel merito di tale
questione mi sembra più che sensato guardare alle Nazioni Unite.
Considerare cioè il Palazzo di Vetro come una sede preliminare
ineludibile di qualunque via futura si scelga. Tuttavia, da ciò a
celebrare il culto dell’Onu, a proclamarne obbligatoria l’osservanza in
ogni circostanza, come sono inclini a fare da sempre una parte
dell’opinione pubblica italiana e la totalità della classe politica, ce
ne corre (o dovrebbe corrercene).
Invece solo da noi, mi pare, l’Onu è considerata quasi una sorta di sede
della coscienza universale, di unica titolare autorizzata a giudicare
che cosa è bene e che cosa è male negli affari del mondo. Solo nel
nostro discorso pubblico o quasi le sue pronunce sono generalmente
accolte come l’inappellabile voce della giustizia. Da qui la necessità –
sentita in Italia come assoluta – di un consenso dell’Onu stessa per
attestare la liceità di qualsivoglia uso della forza: non già, come
invece è, per dichiararne semplicemente la conformità formale al
deliberato dell’organizzazione. Deliberato – bisognerà pur ricordarlo –
che non proviene però da nessuna autorità imparziale (tipo tribunale o
gruppo di «saggi» o esperti super partes ), bensì da un’assemblea di
Stati. Di quei «freddi mostri», come li definì a suo tempo un grande
europeo, i quali sono soliti giudicare legale o meno l’uso della forza
(come del resto qualunque altra cosa) sempre e comunque in base a un
solo criterio: il proprio interesse politico (o, ciò che è la stessa
cosa, il proprio schieramento ideologico di appartenenza). Quale
autentico valore morale abbia una simile pronuncia può essere oggetto
perlomeno di qualche dubbio. Del resto il carattere moralmente spurio
perché fondamentalmente solo politico delle pronunce delle Nazioni Unite
è attestato dal suo stesso statuto, quando istituisce il diritto di
veto. Cioè la regola per cui qualunque verdetto dell’Assemblea generale
degli Stati è di fatto reso inoperante e perciò nullo dal diritto
riconosciuto ai cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza
(Usa, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna) di opporre la loro volontà
contraria. Che razza di accertamento legale, e tanto più etico, è mai
quello che può concludersi in questo modo?
Un’ulteriore riprova della base in realtà assai debole su cui poggia
l’autorità delle Nazioni Unite è data dagli stessi che per un altro
verso si presentano come i loro più convinti paladini. Cioè da coloro
che si riconoscono nelle culture politiche che maggiormente auspicano in
ogni occasione il ricorso all’Onu e l’ossequio alle sue risoluzioni. Per
esempio i cattolici in generale e le gerarchie vaticane: gli uni e le
altre sempre pronti a sostenere l’opportunità dell’intervento del
Palazzo di Vetro, l’uso delle sue istanze e l’adeguamento alle sue
direttive quando si tratta di tensioni e scontri politici tra gli Stati,
di minacce di guerra. Quando però si tratta di questioni di diversa
natura come l’aborto, la definizione di genere o il matrimonio tra
persone dello stesso sesso – questioni dove l’etica conta davvero –
allora, invece, all’Onu e ai suoi meccanismi decisionali non vengono più
attribuiti, chissà perché, alcuna autorità e alcun valore. Così come del
resto una vasta parte dell’opinione pubblica occidentale non attribuisce
neppure lei alcun valore alle varie, pazzotiche (per non dir peggio)
delibere delle Nazioni Unite in materia di razzismo, sionismo e via
dicendo.
La verità, come non è difficile capire, è che dietro il ritornello del
ricorso all’Onu che domina la politica estera dell’Europa c’è
innanzitutto l’inconsistenza di quella politica. E subito dopo il
deperimento del concetto tout court di politica in senso forte: come
decisione per l’appunto sulla pace e sulla guerra, sulla vita e sulla
morte. E questo è, a sua volta, l’effetto dell’incertezza che regna
nella nostra coscienza su che cosa siamo e sul suo senso, su che cosa
dunque ci è consentito di volere e sui mezzi da impiegare per volerlo.
Ormai anche il concetto primordiale di autodifesa ci appare un concetto
problematico. Per qualunque cosa o quasi abbiamo bisogno del consenso
degli altri, e per metterci a posto la coscienza ci diciamo che è così
perché sono gli altri meglio di noi a sapere che cosa è giusto e che
cosa è sbagliato. Anche se dentro di noi sappiamo benissimo che gli
altri, in realtà, ci indicheranno solo ciò che sembrerà più utile per loro.
22 febbraio 2015