Verrà sottoscritto domani [oggi per chi legge, ndr] in Vaticano l’Accordo globale, elaborato sull’Accordo di base siglato il 15 febbraio 2000, tra Santa Sede e Stato di Palestina. Ad inquadrare gli eventi recenti nella prospettiva storica dello sviluppo della posizione della Chiesa Cattolica sul conflitto israelo-palestinese, che segue attentamente da decenni, è sull’ultimo numero de “La Civiltà Cattolica” p. David Neuhaus. “Fu il Concilio Vaticano II a inaugurare una nuova era di dialogo con gli ebrei, con la Dichiarazione Nostra aetate”, ma il documento “non faceva riferimento alle realtà politiche contemporanee in Terra Santa”. Il primo papa ad affermare che “i palestinesi erano un popolo, piuttosto che un semplice gruppo di rifugiati”, sostiene p. Neuhaus, è nel 1975 Paolo VI. Nel 1987 Giovanni Paolo II nomina per la prima volta un arabo palestinese patriarca latino di Gerusalemme. Si tratta di Michel Sabbah, che diventa “una voce schietta, all’interno della Chiesa, nel proclamare le ingiustizie che il suo popolo aveva sofferto per la continua occupazione”. Nello stesso anno Giovanni Paolo II riceve in udienza privata Yasser Arafat, capo dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp). Nei primi anni Novanta l’inizio del processo di pace tra israeliani e palestinesi fa sì che la Santa Sede stabilisca relazioni sia con lo Stato di Israele (1993), sia con l’Olp (1994). L’Accordo fondamentale tra Santa Sede e Stato di Israele (1993) sottolinea “il nuovo rapporto tra la Chiesa e il popolo ebraico”, fa notare Neuhuas, ma chiarisce che la Chiesa non accetta “alcuna interpretazione religiosa riguardo alle pretese territoriali”. Nel febbraio 2000, prima dell’inizio, in settembre, della seconda Intifada, viene firmato un accordo di base da Santa Sede e Olp, che richiama “a una pacifica soluzione del conflitto palestinese-israeliano”. P. Neuhaus definisce “pionieristica” la visita di Giovanni Paolo II in Terra Santa nel 2000 a Yad Vashem e al campo profughi palestinese di Aida, e ricorda l’auspicio di Benedetto XVI, nel corso della sua visita del 2009: “La ‘soluzione di due Stati’ diventi realtà e non rimanga un sogno”, ribadito da Francesco (maggio 2014) al presidente palestinese Abbas e, poche ore dopo, ai leader israeliani. L’Accordo globale siglato domani, afferma p. Neuhaus, “riguarda la vita e l’attività della Chiesa Cattolica nel territorio della Palestina”, come spiega monsignor Antoine Camilleri, sottosegretario per i rapporti con gli Stati della Santa Sede e capo della delegazione vaticana, in un’intervista all’Osservatore Romano citata dal gesuita. “Questo – conclude p. Neuhaus – potrebbe davvero essere il momento per far rivivere le parole che papa Francesco ha pronunciato quando ha ospitato i presidenti Peres e Abbas in Vaticano, nella Pentecoste del 2014”.

 

Una istituzione religiosa mondiale che pensa prima di tutto alla sua sopravvivenza

di Marcello Cicchese

Chi sa leggere il vaticanese e fa i dovuti collegamenti alla storia e ai fatti politici più recenti, non potrà che vedere confermato in questo comunicato, che oggi ha visto il suo adempimento nell’accordo siglato tra Vaticano e Palestina, l’atteggiamento fondamentalmente e inevitabilmente ostile della Chiesa Cattolica verso lo Stato d’Israele. Bisogna dire “inevitabilmente” perché non è una questione di sentimenti più o meno benevoli di qualche papa verso “gli ebrei”, ma della posizione politica che una struttura come quella vaticana, che pretende di essere moralmente universale e super partes, è indotta fatalmente ad occupare nel quadro della politica internazionale. E’ – letteralmente – una questione di sopravvivenza, se si intende per sopravvivenza il mantenimento del posto e dell’influenza che la “Santa Sede” vuole esercitare, anzi pretende di avere il diritto di esercitare, su tutto il mondo. Questo posto di rilievo mondiale è messo in forse ogni volta che scoppiano conflitti drammatici nel mondo, ed è per questo, molto più che per le sofferenze degli uomini, che il Vaticano parla così volentieri di pace, promuove la pace, difende la pace, perché una volta che il conflitto è in corso si pone per lei il serio problema di che cosa dire e non dire, prima ancora di che cosa fare e non fare. E regolarmente avviene che fa quello che è più conveniente alla sopravvivenza della “Santa Sede”, e dice quello che sembra più adatto a conservare l’immagine di “amante della pace”. Il risultato è un cumulo di disgustose ipocrisie in cui si fa un uso indegno del nome di Dio. Se c’è una cosa in cui l’istituzione mondiale religiosa della Chiesa Cattolica ha indubbiamente un primato temporale e occupa una posizione di maestro rispetto all’istituzione mondiale laica delle Nazioni Unite è l’uso sistematico della menzogna e dell’ipocrisia nell’esercizio della politica. Si parla ancora oggi della posizione di Pio XII nei confronti del nazismo, e si cerca di stabilire in quale misura il papa ha difeso oppure no gli ebrei. Ma sulla base di quali parametri morali si fanno queste valutazioni? Nel libro di Guenter Lewy “I nazisti e la Chiesa”, ristampato qualche anno fa, c’è un paragrafo che ha come titolo: “Pio XII: il dilemma della neutralità”. Dopo aver esaminato, con mano leggera e senza infierire, i vari contorcimenti della Santa Sede per dire qualcosa di pubblico sull’invasione tedesca della Polonia, Lewy conclude: “D’altra parte, che cosa doveva fare il papa? In ultima analisi, analizzando tutti i fatti arriviamo alla conclusione che la sua posizione rifletteva non tanto una mancanza di coraggio personale e un’incapacità di difendere la causa della giustizia, quanto le esigenze obiettive di un’istituzione che per quasi 2000 anni aveva attribuito alla propria sopravvivenza – necessaria per la salvezza delle anime dei fedeli – maggiore importanza che alle esigenze morali del proprio credo.” E più avanti l’autore aggiunge: “Nel dicembre 1939, il sommo pontefice pubblicava una lettera pastorale rivolta ai cappellani militari delle forze armate delle nazioni in guerra chiedendo loro di avere piena fiducia nei rispettivi vescovi castrensi. Pio XII dichiarava che la guerra doveva essere considerata una manifestazione della Provvidenza divina e della volontà di un padre celeste il quale sempre volgeva il male nel bene. Il papa chiedeva ai cappellani in quanto «guerrieri che combattono sotto le bandiere della patria, di combattere anche per la Chiesa»”. Il bravo cattolico deve fare anzitutto gli interessi della Chiesa, deve “combattere per la Chiesa”, e se questo deve farlo un semplice fedele, figuriamoci se può non farlo il papa. E Pio XII l’ha fatto. Se si accetta, anche solo per “dialogare”, l’autocoscienza della Chiesa Cattolica e del suo papa, bisogna dire che Pio XII ha fatto bene a fare quello che ha fatto, cioè a non scomunicare Hitler e a non protestare pubblicamente contro le stragi degli ebrei. E l’attuale papa Francesco fa bene a riconoscere lo Stato di Palestina e a dichiarare che la Chiesa non accetta “alcuna interpretazione religiosa riguardo alle pretese territoriali”, cioè a dire che gli ebrei non hanno alcun titolo biblico sulla città di Gerusalemme e sulla terra d’Israele. Il riferimento a Dio non compete agli ebrei, dice il papa. E se lo dice il papa, la questione è chiusa. No, non è di quello che dice o fa il papa che bisogna occuparsi, ma di quello che è o vuole essere il papato. Questo è un argomento teologico, che proprio per questo oggi ha un’importanza politica determinante. Dialogare con il papa è una cosa che lo rafforza. Il papa lo sa molto bene, ed è per questo che cerca il dialogo con tutti. L’ultimo dialogo in ordine di tempo è quello con i Valdesi, tutti contenti di ricevere un papa che dopo qualche secolo chiede loro perdono. E resta il papa. Con qualche scheletro in meno nell’armadio e un po’ di libertà di parola in più. Nel 1532, con l’assemblea di Chanforan, i Valdesi aderirono alla Riforma protestante, scaturita com’è noto dalla protesta di Martin Lutero. Parlando del papato Lutero disse: “Altri hanno combattuto il costume, io combatto la dottrina”, arrivando addirittura a dire che il papato, (non il papa, si badi) è l’anticristo. Oggi, certo, sono altri tempi. Ma sono migliori? Conclusione. La Chiesa Cattolica, con il papa alla sua testa, ha il compito di combattere per la sua sopravvivenza: questo è il suo dovere e il suo interesse. Gli ebrei, da sempre, Israele, da qualche decennio, non rientrano nei suoi interessi. Anzi, li intralciano. Il papa potrà e dovrà cercare di dissimularlo in molte occasioni, ma la realtà di fondo resta questa.

(Notizie su Israele, 26 giugno 2015)