Di Fiamma Nirenstein
Nessuno sa ancora bene cosa aspettarsi da Donald Trump ma il primo ministro Benjamin Netanyahu, si dice, ha ormai fra i suoi impegni quotidiani quello di calmare gli entusiasmi dei suoi ministri. La telefonata che il nuovo presidente degli Stati Uniti ha fatto al premier israeliano domenica sera ha suscitato soddisfazione anche se i due non sono entrati in dettagli: gli accenni sono allegri («molto carina» dice Trump; «amichevole» Bibi), in confronto ai toni sempre nuvolosi dei colloqui con Obama.
Trump ha promesso di «consultarsi intensamente» sulla minaccia iraniana, finalmente chiamata di nuovo come merita; ha dichiarato che l’aiuto alla sicurezza israeliana sarà «senza precedenti» e così anche la «determinazione a raggiungere la pace». Nessun accenno agli insediamenti, niente «confini del ’67», niente «due stati per due popoli», o almeno non si sa. Invece, un invito in tempi brevi alla Casa Bianca, «nella prima parte di febbraio». Netanyahu non si è scoperto più di quello che serviva a mostrare una evidente soddisfazione: l’incubo maggiore di Israele, ovvero le minacce iraniane di distruzione totale che egli ha profetizzato fin dentro il Congressovengono ora prese in considerazione seriamente. Trump parla anche di «combattere l’Isis e gli altri gruppi terroristi islamici», mentre Obama non aveva mai messo insieme l’aggettivo «islamico» col concetto di terrore.
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