Che cosa ha spinto Israele a trasformarsi in una superpotenza militare? La paura.

Così il paese “un po’ Rambo e un po’ Primo levi” è diventato un modello per tutto il mondo.

Il regista francese Claude Lanzmann una volta ha detto che i paracadutisti israeliani sono di un altro tipo rispetto ai parà francesi: “La prova è che hanno ancora i capelli”. L’autore del monumentale “Shoah” voleva dire che gli israeliani sono grandi soldati per necessità, non per militarismo. Sono pochi, circondati da nemici implacabili, venti volte più numerosi: per sopravvivere, Israele deve vincere subito e con un successo risolutivo. Lo scrittore Amos Oz ha dato forse la migliore definizione di Israele: “Di giorno è Rambo, ma di notte si trasforma in un fragile Primo Levi”. La superiorità tecnica ha contribuito alle vittorie; ma è valsa soprattutto la volontà di non morire come popolo. Ancora oggi basta un annuncio convenzionale alla radio perché uomini e donne corrano al fronte, spesso in autostop. Qualcuno, convinto di esaltare la stupefacente vittoria nella Guerra dei sei giorni, ha definito Israele “la moderna Sparta”; altri, meno benevoli, l’hanno definita “la piccola Prussia mediorientale”, un paese militarista e sciovinista da tener d’occhio. Sono state le condizioni esterne, la feroce ostilità degli arabi, a costringere gli israeliani a dormire col fucile e guidare il trattore col mitra, a essere perennemente dei soldati. Se fossero stati riconosciuti dagli arabi come stato che ha diritto di esistere entro confini pacificati, gli israeliani avrebbero investito altrove i miliardi che sono stati costretti a spendere in armi.

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