Il Giornale, 12 dicembre 2017
In questi giorni l’agguato dei media a qualsiasi ghiotto segnale che tutto da queste parti può prendere fuoco e esplodere in una carneficina, è stato commovente. Una passione che ha portato a esaltare ogni manifestazione, ogni piccolo falò di bandierine e ritratti come fossero una rivoluzione che sta per travolgere il mondo. In realtà anche il numero dei palestinesi coinvolti, salvo forse che il venerdì mattina presso la Moschea, è stato contenuto, la gente ha voglia di vivere e lavorare e per ora i leder sembrano distanti dal sentimento popolare, coi loro strepiti e ingiurie. Ma il nome magico Yerushalaim, Jerusalem, “Al Quds ” in arabo, sempre accompagnata dalla formula un po’ stanca “sacra alle tre religioni” è diventata un passpartout che garantisce lettori, ascoltatori specie quando “prende fuoco” come si dice.
E perché prende fuoco? Anche qui la lettura sembra ovvia, ma in realtà lo è meno di quello che il lettore si immagina. Sempre si ripete che la città è sacra alle tre religioni. Ma questo non basterebbe senza una miccia politica. La ragione sta nel fatto che l’Islam, come seguita a ripetere soprattutto Tayyp Erdogan, non può accettare, sopportare, ammettere, che Gerusalemme non sia interamente sua. Lo ripetono anche i manifestanti “collo spirito, col sangue, ti difenderemo Gerusalemme”, lo slogan che la Moschea di Al Aqsa sia in pericolo è un mantra caro ai terroristi suicidi che corrono a salvarla anche se lo status quo conserva alla Spianata delle Moschee giorno dopo giorno, il governo dell’WAQF gestito da palestinesi e giordani. Ma Gerusalemme non è mai citata nel Corano, e se ha avuto un’indubbia valenza politica per l’Islam conquistatore, meno ne ha avuto per l’Islam religioso. Finché diventa politico.
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