Stato ebraico o stato democratico? Questo è il tema del momento quando si parla di Israele. Come sempre quando la gente parla di ebrei, tutti sanno già qual è il punto da cui partire, e di solito non si sente alcun bisogno di tornare indietro per verificare se è quello giusto e se si è arrivati correttamente al punto a cui si è arrivati. L’interesse principale sta nel combattere i sostenitori della parte opposta, contestandoli e ridicolizzandoli per quanto possibile. E i social oggi sono un campo di lotta meraviglioso: mai è accaduto prima nella storia di poter accapigliarsi a parole in modo così esteso e virulento e con così poco sforzo. Ogni tanto, magari solo per riprendere fiato, prima di rigettarsi nella mischia si potrebbe provare a fermarsi un po’, documentarsi, e riflettere. Proponiamo a questo scopo, come semplice stimolo e ausilio, alcuni paragrafi iniziali del libro “Dalla parte di Israele come discepoli di Cristo”. di Marcello Cicchese

Per secoli gli ebrei sono stati considerati un gruppo sociale accomunato da una religione superata e opposta a quella vera, con un passato storico negativo e un presente politico che costringeva le nazioni in cui si trovavano a porsi ogni volta il problema della loro presenza su una terra che non apparteneva a loro. Dal 70 al 1948 d.C. gli ebrei non hanno più avuto una terra, non sono più stati una nazione e la loro presenza è stata considerata un continuo intralcio storico, qualche volta tollerato con benevolenza e con risvolti anche positivi, ma nella maggior parte dei casi subito come una specie di maledizione. «Gli ebrei sono la nostra disgrazia», è la conclusione che in molti casi si traeva quando le cose andavano male e la gente trovava conforto in una spiegazione semplice che accomunava tutti, a parte gli ebrei. L’avvento dell’Illuminismo, con il conseguente declino dell’influenza della Chiesa sulle società europee, rese sempre meno plausibile la diversificazione degli uomini sulla base della religione. Non si abolì del tutto l’idea di Dio: generosamente gli si lasciò il diritto all’esistenza, ma gli si tolse il diritto di parola. Da quel momento Dio, non potendo più parlare, non poté più dire qual è la religione giusta e quale quella sbagliata: dovette accontentarsi di aver creato il mondo e di continuare a produrre esseri umani tutti uguali tra loro quanto ai diritti, anche se suddivisi in vari gruppi socialmente e politicamente organizzati chiamati “nazioni”. Attenzione però: la suddivisione in gruppi nazionali non doveva avere niente a che fare con Dio, come ai tempi della “cuius regio, eius religio”: il riferimento a Dio doveva restare un fatto individuale, un diritto intangibile della singola persona che non doveva interferire con la struttura politica della nazione. Anche gli ebrei, quindi, da quel momento furono considerati come tutti gli altri: furono “emancipati”. Non poterono più essere esclusi per il fatto che si riferivano a Mosè e alla Torà invece che a Gesù Cristo, ma neppure dovevano pensare di avere diritto a un trattamento particolare. Si poteva essere ebrei, cristiani, atei o altro ancora, ma bisognava essere leali verso la nazione di cui si faceva parte. Così si pensava, almeno fino a un secolo fa. La maggior parte degli ebrei, anche se non tutti, accettò questa situazione. Dopo tanti secoli di emarginazione e limitazioni, l’idea di avere – come i non ebrei – libertà d’azione in una terra da poter considerare – insieme ai non ebrei – come loro patria, era troppo attraente.

La cosa cominciò con Napoleone.

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