Il Giornale, 08 novembre 2018

L’antisemitismo ha aleggiato come un fantasma, dopo la strage di Pittsburgh, sulle elezioni americane, ed è diventato imprevedibilmente una parola chiave. E forse la tragedia che ha dovuto subire la più grande comunità ebraica del mondo con i suoi sei milioni di cittadini, il desiderio di voltare quella pagina macchiata di sangue, causa almeno in parte la preferenza ebraica per gli oppositori del presidente. Una preferenza che si collega con la tradizione liberal della comunità americana, ma che adesso assume un carattere palesemente paradossale, dopo le tante, sostanziali prese di posizione di Trump favorevoli a Israele, la messa al bando del trattato con l’Iran, il passaggio dell’Ambasciata a Gerusalemme, i legami familiari di Trump col mondo giudaico (la figlia e il genero ebrei). Paradossale, a meno che non si consideri cosa fatta il divorzio fra gli ebrei di quella diaspora e Israele. Ancora numeri precisi sul voto non li abbiamo, ma il 71 per cento votò per Hillary Clinton nel 2016 e oggi il 74 per cento si dichiara democratico; solo il 34 approva il suo approccio alla politica internazionale, ovvero a Israele. Il divorzio è evidente: secondo l’American Jewish Committee il 77 degli Israeliani approva il modo in cui Trump ha gestito i rapporti fra i due Stati, e solo il 34 per cento degli americani è d’accordo. Il 59 per cento degli americani vuole uno Stato palestinese, e solo il 44 per cento degli israeliani, dopo tanti tentativi falliti, ormai ci crede. Subito dopo l’attentato Trump è stato accusato quasi di averlo causato: si è parlato di atmosfera violenta, di incoraggiamento al suprematismo bianco, di uso delle armi….

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