Venerdì 19 aprile, all’imbrunire, ho provato la grande gioia di partecipare per la prima volta alla celebrazione di  Pésach con la comunità della Casa di Riposo Ebraica di Via Arzaga, a Milano, assieme a mia sorella Ornella, a mio cognato Gualtiero, ad Angela e Benedetto e a Maria, che è entrata a far parte quest’anno come socia di Evangelici d’Italia per Israele.

Ornella ed Angela già da alcuni anni si dedicano al volontariato presso la Casa di Riposo e sono riuscite a creare un buon rapporto di stima e amicizia con il personale, ma soprattutto hanno instaurato uno stretto legame di amore fraterno con alcune ospiti, che hanno manifestato un grande apprezzamento per la cura e l’amore profondo che ricevono da chi, pur non essendo di nazionalità ebraica, le ama come se lo fosse.

Entrati nella piccola sala di preghiera che funge da sinagoga abbiamo ascoltato le letture e i canti – tutti rigorosamente in ebraico – e anche se non capivo alcunché, ero completamente assorbita da ciò che vedevo: il Rabbino con suo figlio adolescente che leggeva la Torah e guidava la preghiera, giovani mamme con i loro bambini che seguivano attentamente le letture e poi gli anziani, molti dei quali in sedia a rotelle, lì ad ascoltare, perché quella non era una serata come le altre,  era Pèsach!

Ci siamo quindi trasferiti nella grande sala da pranzo e, tra ospiti della casa di riposo, parenti e amici saremo stati in circa 140 persone.

Il Rabbino ha dato quindi inizio al Séder di Pésach, spiegando l’ ordine preciso, il rituale di come va eseguito. Questo perché ogni anno, a Pésach, gli ebrei di tutto il mondo non si limitano a ricordare il miracoloso evento dell’esodo, ma lo festeggiano, rivivendone personalmente le emozioni. Solo quando si è pienamente coinvolti nella gioia di una passata redenzione, quando la si vive, solamente allora può verificarsi ciò che gli ebrei aspettano da quasi duemila interminabili anni: la venuta di Mashìach.

Dopo il lavaggio delle mani, anche questo fatto in un modo preciso e particolare, ci si siamo seduti a tavola e si è bevuto il primo bicchiere di vino inclinati sulla propria sinistra. Ogni commensale ha davanti a sé il piatto con i tipici simboli: matzà, màror, karpas, aceto, uovo sodo e charoset.

Ogni gesto viene eseguito con grande semplicità ma con altrettanta attenzione e tutto ciò mi ha fatto pensare che gli stessi gesti, ma in un’atmosfera diversa, certamente meno gioiosa dati gli avvenimenti che si sarebbero succeduti, erano stati vissuti da Mashiach in una lontanissima notte di  duemila anni fa.

Osservavo le persone, i loro visi e dicevo fra me quanto li ammiravo per la loro costanza nella loro fede in Adonai e una parte di me si chiedeva com’era possibile che non vedessero quante analogie in quei gesti e in quei simboli, la matzà che viene spezzata in due e il calice della redenzione, con la figura del Mashiach Yeshua, quella notte a Gerusalemme.

Così, immersa i questi pensieri, ho sentito di amare queste persone per quello che sono, per la loro identità mai perduta nonostante i tentativi nel corso della storia plurimillenaria di distruggerli, per la tenacia, per il coraggio, per l’ amore per la vita, nonostante tutto, e ho provato una profonda gratitudine per tutto ciò che questo popolo ci hanno trasmesso, per quella radice che ci unisce e perché quando arriverà il “loro” Mashiach e quando tornerà il “nostro” Signore e Salvatore Yeshua ci troverà mano nella mano, un unico popolo.

“Riverserò sulla casa di Davide e sugli abitanti di Gerusalemme lo Spirito di grazia e di supplicazione; ed essi guarderanno a me, a colui che hanno trafitto; faranno quindi cordoglio per lui, come si fa cordoglio per un figlio unico, e saranno grandemente addolorati per lui, come si è grandemente addolorati per un primogenito” (Zac 12:10)

Se poi qualcuno gli dirà: “Che cosa sono queste ferite nelle tue mani?”, egli risponderà: “Sono quelle con cui sono stato ferito nella casa dei miei amici” (Zac 13:6)

 Laura Calasso

25 aprile 2019