Prefazione
di Carlo Nordio
Da quando, circa cinquemila anni fa, Lugalzaggisi re di Uruk conquistò la Caldea, gli Stati più forti hanno cercato di conquistare quelli più deboli. Tutto lascia supporre che lo facessero anche
prima, ma ne abbiamo conoscenza soltanto da quel periodo in poi. Questo duro insegnamento della storia è stato scolpito da Tucidide nell’intimazione di resa che gli Ateniesi fecero ai Meli:
“È inutile che invochiate i vostri dei: non solo perché anche noi abbiamo i nostri, ma perché entrambi ubbidiscono a una legge di natura che spinge i più forti a dominare i più deboli”. C’è una particolarità in questa selezione darwiniana elevata a criterio politico: satrapi, imperatori, monarchi assoluti e costituzionali, e infine anche repubbliche democratiche, hanno aggredito i Paesi più deboli per assoggettarli, conquistarli, sfruttarli e magari schiavizzarli. Raramente, o quasi mai, per sterminarli e basta. Forse l’unico esempio è costituito, per quanto ne sappiamo, dai Romani con i Cartaginesi. Ma ci arrivarono esasperati, dopo due tremende guerre puniche, terrorizzati dall’idea che gli eredi
di Annibale ne scatenassero una terza. Catone predicava la delenda Carthago non per sete di sangue, ma di sicurezza. Lo Stato di Israele, in tutto ciò, costituisce un’eccezione. Dal momento
della sua fondazione, nel 1948, ha subìto aggressioni dagli Stati confinanti che non ne riconoscevano il diritto di esistenza, malgrado la sua legittimità fosse stata dichiarata dalle Nazioni Unite e i primi riconoscimenti fossero arrivati – è bene ricordarlo – dall’Unione Sovietica. Ma a quel tempo Israele era l’unico governo socialista in un Medio Oriente di simpatizzanti hitleriani. L’urss e i suoi satelliti, compresi i nostri intellettuali di sinistra, cambiarono idea dopo il 1955, quando Nasser fu mollato dagli americani. Persino alcuni ebrei italiani di fede marxista, pur di restare incollati alla Chiesa moscovita, rinnegarono l’alleanza ideale con il Paese dei loro antenati. Ma questa è un’altra storia.
Dopo l’aggressione del 1948, Israele capì di vivere in uno stato di legittima difesa permanente e, poiché i suoi vicini non miravano tanto alla conquista quanto alla distruzione del nuovo Stato e dei suoi abitanti, dovette adottare il criterio della difesa preventiva. Non potendosi permettere il lusso di perdere una battaglia, e tantomeno una guerra, perché avrebbe perso anche la vita, Israele studiò le mosse del nemico e lo colpì prima di essere aggredita. Così fece sotto la guida militare di Moshe Dayan durante la crisi di Suez del ’56, e sotto quella di Yitzhak Rabin nella guerra dei Sei Giorni del ’67. Sei giorni di guerra dopodiché, come scritto nei libri sacri, il settimo giorno decise di riposare. Fu un riposo rischioso, che l’attentato alle Olimpiadi di Monaco del 1972 avrebbe dovuto interrompere. Invece Israele si cullò nell’idea della supremazia militare su avversari divisi e indeboliti per svegliarsi poi, improvvisamente, nell’ottobre del 1973, quando gli egiziani, attraversato il canale di Suez, travolsero l’esile velo di truppe della linea Bar Lev e puntarono con migliaia di carri al cuore del piccolo Stato. Cosa che, naturalmente, fecero anche gli altri Stati limitrofi. Contro queste armate di Golia, Davide reagì con un po’ di ritardo, ma con un’efficienza mai vista. Alcuni dicono che fu salvato dal ponte aereo di armi americane, cosa non vera, poiché queste ultime servirono solo a colmare le esauste riserve dell’idf, ma Gerusalemme fu salvata dall’eroismo dei suoi soldati e dalla genialità dei suoi generali. Ariel Sharon e Avraham Adan superarono nell’impiego dei mezzi corazzati le imprese di Rommel e di Guderian, e arrivarono alle porte del Cairo. Masada non sarebbe caduta una seconda volta, ma aveva corso un rischio mortale. Da allora, Israele studiò il nemico, quello vero e quello potenziale, con più accuratezza. E quando fu necessario agì in modo preventivo. Nel 1981, distrusse un impianto atomico in Iraq. Ventisei anni dopo, ripeté in Siria l’impresa che è rievocata in questo libro.
Si potrà discutere a lungo sulla legittimità formale di queste azioni. La risposta del giurista è che necessitas legem non habet; quella del politico è che questo si doveva fare, e questo si è fatto. L’importante è averlo fatto bene. Michael Sfaradi racconta qui l’antefatto dell’operazione e la sua esecuzione perfetta. Su quest’ultima non c’è nulla da dire: tutti sanno che l’aviazione israeliana è la migliore del mondo. Sul modo in cui si è arrivati, l’autore è molto abile nel dire e non dire. I personaggi sono reali ma, come lui stesso sottolinea, il resto è romanzato. Già. Certo, è difficile credere che uno scienziato-spione siriano in possesso di segreti nucleari si faccia sedurre, in pochi secondi, da una maliarda che un esperto avrebbe subito riconosciuto come professionista deputata a un’impresa sospetta. E tuttavia, depurato dalle avventure più o meno galanti, il romanzo è un vero manuale di spionaggio. Nell’ingarbugliata matassa di servizi segreti e di agenti operativi c’è un sottile melange di verità e finzione, di banalità scontate e di astuzie diaboliche. Alcuni sistemi per depistare i pedinatori sono noti e tradizionali: li ha usati persino chi scrive, quando era nel mirino delle Brigate Rosse che gli preparavano un attentato. Altri sono più raffinati, ma si leggono nei libri specializzati, soprattutto quelli sul soe, lo Special Operation Executive, eretto dagli inglesi durante la seconda guerra mondiale. Altri espedienti, soprattutto nella comunicazione, sono frutto dei miracoli tecnologici, e così fantasiosi da sembrare incredibili.
Tuttavia il fascino del romanzo non risiede in quello che l’autore dice, ma in quello che non dice. Un’impresa del genere deve aver avuto, e ha certamente avuto, una gestazione ancora più complessa di quella – già straordinaria – descritta qui. Michael Sfaradi sicuramente lo sa, e noi intuiamo che lo sa perfettamente. La nostra fantasia potrà colmare queste doverose reticenze. Del Mossad, in effetti, immaginiamo tutto, siamo informati poco e non sappiamo nulla. Nulla se non una cosa: che sono gli occhi puntati da Israele su chi ne minaccia l’esistenza, e che dietro questi occhi c’è un’intelligenza consolidata dalla storia e dalla filosofia di popolo stimolata dalla necessità. La necessità è quella che abbiamo detto: questione di sopravvivenza. La filosofia è quella di un popolo che, aggredito, perseguitato e cacciato nel corso dei millenni, ha sviluppato facoltà intellettuali superiori. Un saggio del secolo scorso disse che il Novecento era dominato dal pensiero di quattro ebrei: Gesù, Einstein, Marx e Freud. Ho forti riserve su questi ultimi due che sembrano ormai fuori moda, ma è vero che la loro influenza nel secolo scorso fu enorme. Quanto all’intelligenza, i risultati scientifici e culturali prodotti da questo popolo sono quasi incredibili in rapporto all’esiguità numerica di chi lo compone, nonostante le persecuzioni abbiano impedito il pieno sviluppo di queste facoltà. È significativo, ad esempio, che nella musica i nomi dei grandi pianisti siano equamente distribuiti: Wilhelm, Sviatoslav, Arthur eccetera; mentre da sempre, tra i primi dieci violinisti al mondo, almeno nove recano nomi univoci: Itzaac, Misha, Yehudi, Pinchas, Nathan. Alla domanda sul perché di tale supremazia uno di loro una volta rispose: “Provate voi a scappare dai pogrom con un pianoforte sulle spalle”.
Israele sa adattarsi, ma quando è messo alle strette dà il meglio del meglio, come il Mossad descritto in questo libro.