di Rav Gianfranco Di Segni

E’ cosa nota che la festa di Pesach celebra la liberazione degli ebrei dall’Egitto. Meno noto è che la libertà dalla schiavitù egiziana figura nel primo dei Dieci Comandamenti: “Io sono il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla casa di schiavitù” (Es. 20:2; Deut. 5:6). E nel quarto comandamento, quello sull’osservanza dello Shabbat, è scritto: “Il settimo giorno è Shabbat per il Signore tuo Dio, non potrai fare alcuna opera né tu, né tuo figlio né tua figlia, né il tuo servo né la tua serva (… ) in modo che il tuo servo e la tua serva possano riposare come tu stesso, e ti ricorderai che schiavo fosti in terra d’Egitto e il Signore tuo Dio ti fece uscire da là con mano forte e con braccio disteso (Deut. 5:12-15). Numerosi sono i precetti della Torah che traggono la loro liberazione dall’uscita dall’Egitto, o per differenziarsi dai comportamenti e gli usi egiziani o per la consapevolezza che gli ebrei acquisirono vivendo in quel paese (per esempio, la condizione di straniero).
Se è chiaro da cosa siamo liberati, la domanda che ci si può porre è siamo liberi di fare cosa? Liberi di essere chi? Di stare dove? A quest’ultima domanda risponde la Haggadà di Pesach, che proprio all’inizio afferma: “Quest’anno qui (nella diaspora) schiavi, l’anno prossimo liberi (benè chorin) in terra d’Israele”. Una frase che da duemila anni abbiamo recitato ogni anno, finalmente non invano: Israele è l’unico paese al mondo in cui gli ebrei sono liberi di essere ebrei, senza doversi nascondere (per esempio, nascondendo la kippà) e senza doversi giustificare se ci si comporta da ebrei.
Alle altre domande, liberi di fare cosa e di essere chi, rispondono i Pirqè Avot (le Massime di Padri, il trattato etico della Mishnà): “Disse rabbi Yehoshua ben Levi: Ogni giorno una voce celeste esce dal Monte Chorev (il Sinai) e proclama il versetto della Torah che dice: ‘Le Tavole (della Legge) sono opera di Dio, e ciò che è scritto è scritto da Dio, scolpito (charut) sulle Tavole’ (Es. 32:16): non leggere ‘charut’ bensì ‘cherut’ (libertà), perché non è veramente libero (ben chorin) se non colui che si occupa di Torah” (cap. 6:2). Questa massima dei Pirqè Avot si basa sulla possibilità della Torah di essere letta in diversi modi, grazie al fatto che il testo ebraico non è vocalizzato. Non si vuole sostituire un significato all’altro né eliminare quello letterale, ma solo aggiungere una dimensione ulteriore al senso del versetto. Vediamo quindi che per i Maestri della Mishnà la libertà non è incondizionata e illimitata, ma è vincolata dall’osservanza della legge. Da una parte solo chi vive secondo una legge è libero; dall’altra parte, però, tutti i numerosi precetti della Torah sembrano scolpiti nei nostri cuori e non pare che ci lascino molti margini di libertà. Alcuni pensano che lo Shabbat sia una giornata monotona e noiosa, non potendo andare ovunque vogliano o fare qualsiasi cosa: si sentono menomati nella propria libertà. Altri, all’opposto, accolgono lo Shabbat con attesa e gioia, liberi finalmente dal lavoro e dalle preoccupazioni quotidiane.
Quando un servo, nell’antichità, voleva rimanere a servizio di un padrone, invece che tornare libero dopo sei anni di lavoro come previsto dalla legge, lo si avvicinava allo stipite (mezuzà) della porta e gli si bucava l’orecchio. Per quale motivo? Spiega Rashì: Un uomo che presso il Monte Sinai ha sentito dal Signore con le sue orecchie che gli ebrei sono i Suoi servi, e non servi di servi, e nonostante ciò vuole continuare a rimanere in condizione di schiavitù presso altri uomini, gli venga bucato l’orecchio come segno di riprovazione morale per aver disdegnato la libertà (Es. 21:1-6). Continua a leggere su NsI