L’articolo che segue è presente da anni nella sezione di Presentazione del nostro sito. Lo ripresentiamo ora in questa forma sia perché molti vanno subito alle notizie di attualità e rimandano ad altri momenti letture più impegnative, sia perché intendiamo ribadire, anche nei particolari, che l’atteggiamento di fondo con cui ci poniamo nei confronti di Israele non è cambiato col passar del tempo e con lo scorrere degli avvenimenti. Dire questo è tanto più importante in quanto dopo il 7 ottobre le simpatie per Israele, da sempre molto poche, sono drasticamente diminuite nelle statistiche. Per noi non è così, la ripresentazione di questo articolo vuol esserne una conferma.

Il problema di Israele in realtà è stato sempre il problema dell’esistenza di Israele. La ragione del disagio non va cercata in quello che gli ebrei fanno o sono. La gente non li odia perché fanno gli strozzini o hanno il naso adunco: il problema sta nel fatto che ci sono.
Da una parte questa constatazione può tagliare le gambe agli ebrei di buona volontà, quelli che vogliono avere un comportamento giusto e rispettoso verso gli altri, che cercano di evitare atteggiamenti di superbia che possano ferire, che fanno sforzi per favorire il dialogo e lo stare insieme dei diversi. Tutto questo è buono e lodevole in sé, ma non cambia il fatto che le cose buone può farle soltanto qualcuno che c’è. E più un ebreo si muove, anche per venire incontro al suo prossimo non ebreo, più gli fa sentire che c’è. E questo non fa che aumentare l’avversione del non ebreo ostile.

UNA MALATTIA DEI GENTILI
D’altra parte, proprio questa amara constatazione può liberare l’ebreo da un inutile senso di colpa. «Sarò imperfetto, farò molte cose sbagliate, sarò un poco di buono come tanti altri – può pensare – ma se i guai provengono dal fatto che ci sono, allora la colpa non è mia, perché io ho il diritto di esserci, come tutti gli altri».
Sì, su questo punto gli ebrei possono tranquillizzarsi: il “problema Israele” in realtà è una malattia dei gentili.
C’è un particolare della vita di Theodor Herzl che fa capire quanto può essere pesante per un ebreo il sentirsi non accolto dall’ambiente circostante, e quanto può essere grande e sincero il desiderio di fare qualcosa per venire incontro alle aspettative degli altri. Riporto alcune notizie della sua vita tratte da “A History of Israel from the Rise of Zionism to our Time”, di Howard M. Sachar.
Herzl non era un religioso, e in gioventù tendeva piuttosto all’assimilazione. Provava anzi un po’ di disagio davanti ai comportamenti sconvenienti di certi “cattivi ebrei”. Ma il suicidio di un suo caro amico, Heinrich Kana, molto probabilmente dovuto ai disagi legati al suo essere ebreo, lo scosse profondamente. Nella sua attività di giornalista cominciò allora a dedicare sempre più attenzione all’antisemitismo, e nel privato continuò a rimuginare dentro di sé su quello che si poteva fare per eliminare questa piaga sociale. Un’idea che gli venne in mente, e che riportò soltanto nelle sue note, fu «una volontaria e onorevole conversione» di massa degli ebrei al cristianesimo. Immaginava che la cosa sarebbe dovuta avvenire «alla chiara luce del sole, in un pomeriggio di domenica, con una solenne, festosa processione accompagnata dal suono delle campane … con fierezza e gesti dignitosi». L’autore aggiunge che Herzl lasciò cadere quasi subito quest’idea, ma il semplice fatto che gli sia venuta in mente fa intuire il peso che aveva in cuore, e la sua sincerità nella ricerca di una soluzione che non danneggiasse nessuno.
Resta la domanda del perché. Perché i gentili non sopportano la presenza degli ebrei come persone, come popolo, come nazione? Anche qui le spiegazioni date sono innumerevoli, ma quella biblica resta la più semplice, ed è anche quella giusta: gli ebrei ricordano Qualcuno. Qualcuno a cui non si vuole pensare perché non si vuole che ci sia. O, se proprio deve esserci, che almeno stia zitto. Si sarà capito che è il Dio d’Israele, l’unico vero Dio, che non solo ha creato i cieli e la terra, ma li ha creati con la sua parola, e quindi ha parlato, e continua a parlare. Cosa che a molti non fa piacere.
Si capisce allora perché periodicamente si è sempre fatto avanti qualcuno che ha manifestato la “buona intenzione” di beneficare l’umanità risolvendo una volta per tutte il problema nell’unico modo adeguato: sterminando gli ebrei. E questa non è un’idea che sia venuta in mente per la prima volta a Hitler. L’intenzione risale ai tempi biblici. Sentiamo come prega il salmista:

“O Dio, non restare silenzioso! Non rimanere impassibile e inerte, o Dio! Poiché, ecco, i tuoi nemici si agitano, i tuoi avversari alzano la testa. Tramano insidie contro il tuo popolo e congiurano contro quelli che tu proteggi. Dicono: «Venite, distruggiamoli come nazione e il nome d’Israele non sia più ricordato!» Poiché si sono accordati con uno stesso sentimento, stringono un patto contro di te: le tende di Edom e gl’Ismaeliti; Moab e gli Agareni; Ghelal, Ammon e Amalec; la Filistia con gli abitanti di Tiro; anche l’Assiria s’è aggiunta a loro; presta il suo braccio ai figli di Lot” (Salmo 83:1-8).

Tramano insidie contro il tuo popolo, congiurano, si sono accordati con uno stesso sentimento, stringono un patto, dicono: «Venite, distruggiamoli come nazione e il nome d’Israele non sia più ricordato!» Sembra di assistere a una seduta della Lega Araba. Anche loro, infatti, hanno stretto un patto, che dà tutta l’impressione di essere soltanto contro Israele.
In questo salmo c’è tutta la spiegazione del “problema Israele”. Abbiamo detto che la causa profonda dell’ostilità verso gli ebrei sta nel fatto che ci sono, e infatti qui si dice: “distruggiamoli come nazione”. Abbiamo detto che non si vuole che gli ebrei ci siano perché non si vuole che la loro presenza tenga vivo un ricordo, e qui si dice: “… e il nome d’Israele non sia più ricordato!”. Abbiamo detto che quello che non vuol essere ricordato è il Dio d’Israele, e qui si dice che i popoli stringono un patto contro di te, cioè contro Dio che ha scelto Israele.
Il salmista non prega dicendo: “Aiuto, Signore, siamo in mezzo ai guai, liberaci dai nostri nemici”, come avremmo fatto noi che pensiamo sempre e soltanto agli affari nostri. Il salmista dice: “I tuoi nemici si agitano, i tuoi avversari alzano la testa”. Quello che succede a noi è un problema tuo, dice il salmista a Dio, perché i nostri vicini stanno congiurando “contro quelli che tu proteggi”, e allora se noi andiamo a fondo, sarà il tuo nome che ci va di mezzo. Diranno che non sei un Dio potente, che non sei stato capace di proteggere il tuo popolo, arriveranno fino a Gerusalemme, al monte che tu hai scelto per tua dimora (Salmo 68:16), e faranno quello che vuol fare Arafat (anacronismo calcolato), «poiché hanno detto: Impossessiamoci delle dimore di Dio» (Salmo 83:12). E nel seguito il salmista non chiede al Signore di aiutare il popolo d’Israele, ma di colpire i nemici di Dio. Cattiveria? No, difesa del nome di Dio e desiderio che i popoli vicini, proprio quelli che vogliono far sparire il nome d’Israele dalla terra (tanto da non volerlo nemmeno scrivere sulle carte geografiche del Medio Oriente), si ravvedano e cerchino il nome del SIGNORE, buttando nella spazzatura tutti gli altri nomi. Infatti conclude:

Copri la loro faccia di vergogna perché cerchino il tuo nome, o SIGNORE! Siano delusi e confusi per sempre, siano svergognati e periscano! E conoscano che tu, il cui nome è il SIGNORE, tu solo sei l’Altissimo su tutta la terra (Salmo 83:16-18).

Il salmista quindi non va in depressione per l’odio che sente contro Israele, e non si limita neppure a dire a se stesso: “Io ho il diritto di esistere come tutti gli altri”, ma in sostanza dice a Dio: “Tu hai il dovere di farmi esistere per tutti gli altri”.
Ma è chiaro che chi osa pregare in questo modo deve anche, coerentemente, lui per primo, cercare e onorare il nome del Signore. E questo è il vero problema di Israele.

EBREO, GENTILI… E CRISTIANI
Cominciamo adesso a dire qualcosa su di noi, che ci professiamo cristiani e abbiamo un particolare rapporto con Israele e con gli ebrei.
Diciamo anzitutto che mentre il dualismo ebrei-gentili è giustificato biblicamente ed è chiaro nella sua formulazione, anche se non sempre nella sua esatta delimitazione, la contrapposizione ebrei-cristiani è ambigua e fuorviante. Anzitutto, entrambi i termini sono di radice ebraica. Se invece di usare la derivazione dal greco si usasse quella dall’ebraico, si dovrebbe parlare di “messianici”, invece che di “cristiani”, e allora il collegamento con l’ebraismo sarebbe più evidente. Ma a parte questo, non ha senso contrapporre ebraismo e cristianesimo come se fossero due religioni che una volta si combattevano ma adesso hanno finalmente imparato la civile arte del dialogo e della coesistenza pacifica. O meglio, il senso è che quando questo avviene, vuol dire che s’incontrano due religioni create dagli uomini, senza reale collegamento con la rivelazione biblica. All’inizio i cristiani erano tutti ebrei. Solo dopo qualche anno ai cristiani ebrei si sono aggiunti anche i gentili, che adesso certamente sono in larga maggioranza. Ma questo non giustifica una delimitazione di campo tra ebrei e cristiani.
Prendiamo infatti i principali documenti dei cristiani: i vangeli. Qualcuno forse pensa che i vangeli siano libri da sacrestia, che parlino di chiese, messe, sacramenti, processioni, statue della madonna, cattedrali. Chi li conosce sa invece che non c’è niente di tutto questo. E molti forse sarebbero sorpresi nel sapere che nei vangeli il termine “chiesa” è usato solo 3 volte in due soli versetti, mentre il termine “Israele” è usato 30 volte in altrettanti versetti. Un rapporto di 1 a 10. Questo dà una prima idea di questi libri che, contrariamente a quello che si può pensare, hanno un carattere interamente ebraico, anche se sono scritti in greco. Una persona che cominciasse a leggere l’Antico Testamento e proseguisse nel Nuovo fermandosi ai vangeli, potrebbe legittimamente chiedersi: “Ma che c’entrano i non ebrei in tutto questo?”. Un ebreo nato in Israele e cresciuto con un’educazione ortodossa, che in età adulta si è deciso infine a leggere i vangeli, non solo vi ha ritrovato un paesaggio a lui ben familiare, ma a un certo momento si è chiesto: “Ma come fanno i gentili a capire questi libri?” E la domanda è comprensibile, perché per veder comparire il primo gentile che occupi un posto significativo nella storia della salvezza si deve arrivare al capitolo 10 del libro degli Atti.
Riporto un passo del vangelo che dovrebbe essere noto, ma non è molto sottolineato:

Ed ecco una donna cananea di quei luoghi venne fuori e si mise a gridare: «Abbi pietà di me, Signore, Figlio di Davide. Mia figlia è gravemente tormentata da un demonio». Ma egli non le rispose parola. E i suoi discepoli si avvicinarono e lo pregavano dicendo: «Mandala via, perché ci grida dietro». Ma egli rispose: «Io non sono stato mandato che alle pecore perdute della casa d’Israele». Ella però venne e gli si prostrò davanti, dicendo: «Signore, aiutami!» Gesù rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli per buttarlo ai cagnolini». Ma ella disse: «Dici bene, Signore, eppure anche i cagnolini mangiano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni». Allora Gesù le disse: «Donna, grande è la tua fede; ti sia fatto come vuoi». E da quel momento sua figlia fu guarita (Matteo 15:22-28).

E’ un passo tosto. Ci presenta un Gesù che entra a fatica nelle varie iconografie religiose o laiche. C’è da scommettere che il racconto riesce a scontentare tutti. Scontenta i palestinesi, perché vedono una di loro umiliarsi in modo indecoroso davanti a un ebreo; scontenta gli ebrei, perché si sentono chiamare “pecore perdute” e perché non possono lasciare Gesù ai polacchi e al loro Papa, come avrebbero fatto più che volentieri; scontenta gli antisemiti, perché vedono un Gesù che privilegia in modo inaccettabile gli ebrei; scontenta i promotori dei rapporti umani tra israeliani e palestinesi, perché il dialogo si deve fare su un piano di parità e non in quel modo; scontenta infine tutti quelli dal cuore tenero, perché “così non ci si comporta, ed è pure maleducazione non rispondere, e poi, sì, va bene, la donna alla fine è stata esaudita, ma a prezzo di quale umiliazione! Non si fa così!”
Non è possibile entrare qui nella spiegazione di quel passo del vangelo, ma vale la pena segnalarlo perché è uno di quei passi della Bibbia che si riescono a ingranare in modo legittimo nel contesto solo se si ha una comprensione della rivelazione biblica che tiene conto in modo corretto del posto che occupa Israele nella storia della salvezza.
C’è anche un’altra donna non ebrea che Gesù ha trattato in modo non proprio conforme a certi canoni di comportamento usualmente accettati: la donna samaritana. Gesù la incontra e le chiede un favore. Lei si sorprende, prima in modo positivo, perché Gesù si degna di rivolgerle la parola, poi in modo negativo, perché certe parole di Gesù sulla sua vita privata avrebbe volentieri fatto a meno di sentirle. E alla fine, dopo aver capito che Gesù era un profeta, gli pone un problema teologico:

«I nostri padri hanno adorato su questo monte, ma voi dite che a Gerusalemme è il luogo dove bisogna adorare». Gesù le disse: «Donna, credimi; l’ora viene che né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate quel che non conoscete; noi adoriamo quel che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma l’ora viene, anzi è già venuta, che i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; poiché il Padre cerca tali adoratori. Dio è Spirito; e quelli che l’adorano, bisogna che l’adorino in spirito e verità». La donna gli disse: «Io so che il Messia (che è chiamato Cristo) deve venire; quando sarà venuto ci annunzierà ogni cosa». Gesù le disse: «Sono io, io che ti parlo!» (Giovanni 4:20-26).

C’è un altro fondamentale errore, molto comune, che deve essere corretto. La Bibbia dei cristiani si divide in Antico e Nuovo Testamento, e, com’è noto, la parola testamento significa patto. Si parla dunque di due patti che Dio ha fatto con gli uomini. Il lettore provi a fare un test con se stesso, e eventualmente anche con altri. Che patti sono? Dove si parla nella Bibbia di questi due patti? Con chi ha fatto Dio i due patti? Forse soltanto a quest’ultima domanda molti si sentirebbero sicuri di poter dare la risposta giusta: l’antico patto è stato fatto con gli ebrei, e non vale più; quello nuovo è stato fatto con i cristiani, e vale ancora. La risposta è sbagliata. Da Abraamo in poi, tutti i patti di cui parla la Bibbia (Antico e Nuovo Testamento) sono stati conclusi sempre e soltanto con il popolo d’Israele. E di tutti questi patti, soltanto uno è da considerarsi superato, ma non per scadenza dei termini o per progresso culturale, come potrebbero pensare i laici illuminati, ma semplicemente perché è stato violato da una delle due parti: il patto con Mosè. Tutti gli altri patti, quelli con Abraamo, con Davide e il nuovo patto, sono sempre in vigore perché sono patti incondizionati, che Dio si è impegnato a mantenere soltanto per essere fedele al suo nome. Non possono essere violati, e quindi sono sempre validi.
Nell’ultima cena Gesù ha parlato di patto quando ha detto ai suoi dodici discepoli ebrei: «Questo è il mio sangue, il sangue del patto, che è sparso per molti» (Marco 14:24). Questa frase non è una formula magica che fa cambiare il vino in sangue, anche perché in quel momento il sangue di Gesù stava ancora scorrendo nelle sue vene; questo è un linguaggio tipicamente ebraico, come quello che usò Mosè quando suggellò il patto con Dio al Sinai: continua a leggere su NsI